Il grado di sviluppo di un Paese si misura anche, forse soprattutto, da come questo tratta i propri artisti. Non molto tempo fa abbiamo parlato della legge 100 del 2010, che vieta le prestazioni di lavoro autonomo dei dipendenti delle fondazioni lirico-sinfoniche, nel caso di mancata sottoscrizione del contratto collettivo nazionale di lavoro. Oggi ci avviciniamo a un mondo dai contorni più indefiniti, ma dal forte impatto per le subculture giovanili, data la spinta creativa che lo contraddistingue, ossia la musica rock. Quella che si diffonde ovunque trovi spazio, nei piccoli locali, nei club, in festival e rassegne. Che si nutre della passione di chi la fa e del supporto di chi l’ascolta (e molto spesso le due figure si sovrappongono).

Questo Davide deve scontrarsi ogni giorno con un Golia dalle spalle larghe e dall’autorità indiscutibile: la Siae. La Società italiana artisti ed editori agisce in regime di monopolio proprio per tutelare i diritti di questi ultimi, ma con una gestione da sempre problematica, tant’è che, negli ultimi trent’anni, solo quattro sono trascorsi in regime ordinario, mentre per i restanti 27 la società è stata commissariata.

La questione viene periodicamente a galla per poi sparire nel mare di notizie quotidiano, e stavolta a farla riemergere è un’iniziativa di Umberto Palazzo, quarantottenne cantante e chitarrista pescarese, membro fondatore dei Massimo Volume e anima del progetto Il Santo Niente, band tra le più influenti nel panorama alternative rock italiano. Palazzo, dalla sua pagina Facebook (le note si possono visualizzare qui e qui, anche se non siete iscritti al social network) ha lanciato l’idea di una class action da parte degli artisti contro la Siae, per protestare contro i metodi di assegnazione dei diritti adottati della società, che di fatto penalizzano i soci “minori” (in termini esclusivamente economici), favorendo invece orchestre da ballo e “grandi” soci, oltre a servire per liquidare gli stipendi a coloro che dovrebbero tutelarli e non lo fanno.

Il cavillo sta nel fatto che la Siae distingue tra concerti e “concertini”. Questi ultimi sono infatti trattati non in base agli elenchi (borderò) che obbligatoriamente alla fine di ogni serata gli artisti devono compilare, indicando titolo e autore dei brani eseguiti, bensì (per il 75 per cento) a campione, andando quindi a finanziare gli autori i cui brani sono suonati più spesso. Un tempo era così solo per le serate con deejay, dal 2007 funzionano così anche i “concertini”. «Quindi (pazzesco ma è così) -scrive Palazzo- i pezzi che vengono pagati (e si tratta di un’alluvione di denaro se solo pensate a quante serate si fanno nel fine settimane nei vostri paraggi), sono solo quelli che il funzionario preposto conosce e magari il burocrate in questione è un ex carabiniere piuttosto anziano, come mi è capitato».

La conseguenza è il verificarsi di situazioni simili a quella descritta dall’artista nella contro-replica alla Siae: «Uno va a suonare in un locale, suona i suoi 14 pezzi per un’ora e dieci di concerto, il gestore del locale paga [la Siae] per l’utilizzo dei pezzi dell’autore, ma questi soldi, che ovviamente il gestore sottrae al già misero rimborso dell’artista, vanno a finire nel portafoglio di autori già ricchissimi. Un esempio concreto? Per i miei quattro concertini di questa settimana sono stati pagati alla Siae circa 280 euro di permesso (di utilizzare i miei pezzi, vi ricordo). Ho sotto gli occhi il rendiconto del primo semestre 2011 e il ricavato dei concertini è (lordo e per sei mesi, non quattro giorni) di ben 82,59 euro». Certo, è una battaglia che riguarda principalmente gli artisti. Ma tra le tante “caste” di cui è composto il Paese ci sembra tra le più deboli, e sarebbe quindi ora di riformare questo sistema che imbavaglia, più di qualsiasi censura, l’espressione artistica “non allineata”.