di Federico Caruso

Durante una chiacchierata collettiva, seduti attorno a un tavolo con amici e conoscenti nel pieno dell’estate salentina, mi sono lasciato sfuggire un intercalare che (mi sono accorto in quel momento) mi si è appiccicato addosso da un po’: «Già, ma siamo in Italia». La conversazione in questione verteva sugli esami di ammissione ai corsi di abilitazione per insegnanti, e assieme si constatava come ci fossero enormi contraddizioni organizzative in una questione che compete in toto al Ministero dell’istruzione. Nei test molte domande sono state annullate (e quindi abbuonate a tutti i candidati) perché mal formulate (o errate); in molti istituti il numero di iscritti al test era troppo alto rispetto alle dimensioni delle aule, quindi pare si siano verificati casi di compiti eseguiti collettivamente, perché «era impossibile non copiare»; ancora, alcune sedi universitarie che dovranno ospitare i corsi di abilitazione hanno dichiarato di non avere gli spazi necessari a ospitare il numero di studenti assegnati loro dal ministero. Insomma, un gran caos, che si sarebbe potuto evitare con un minimo di accorgimenti operativi che si immaginano alla portata della macchina ministeriale.
«Già, ma siamo in Italia», mi sono trovato a dire. Come a intendere che sì, sembra tutto fattibile finché cerchiamo di ragionare intorno a un tavolo tra persone di buon senso. Ma in Italia, quando c’è di mezzo la politica, la pubblica amministrazione, il “grande leviatano” dello Stato, tutto si complica e non possiamo che aspettarci che le cose non funzionino. Ma, come mi ha fatto notare uno dei miei interlocutori, è ora di finirla di consolarci ripetendo questa formula. Dire che «siamo in Italia» di fronte ai diritti negati, all’economia che non riparte, alla scuola che non vede piani di riforma seri, alla disoccupazione e all’abbrutimento generale equivale a gettare la spugna, a dire che non ce la possiamo fare a ripartire, e che in fondo non è neanche colpa nostra. «Siamo in Italia», quindi le cose non possono che andare così, inutile opporsi. Di più, la convinzione diventa addirittura retroattiva, come a dire che le cose stanno così da sempre, inutile sforzarsi di aprire gli orizzonti e cercare soluzioni nuove ai problemi. Questi staranno sempre lì, sempre gli stessi, solo più grandi e inaffrontabili. Perché la classe politica non è preparata, perché la crisi ci schiaccia dall’esterno, perché ai giovani non è data la possibilità di sostituirsi alla generazione che ha in mano il potere.
È una visione fallimentare, che sta prendendo piede anche nei cittadini più ottimisti e volenterosi. Anche tra coloro che cercano di fare del proprio meglio nella vita di tutti i giorni, ma poi si sentono schiacciati dal sistema, e allora piuttosto che combattere per cambiarlo decidono di sminuire un pochino i propri sogni e le proprie aspirazioni. Giorno dopo giorno abbassano le aspettative, si accontentano di quel poco che c’è, perché «siamo in Italia» e allora è già tanto se possono vivere dignitosamente. Oppure no, e allora vanno all’estero, così almeno possono ribaltare il discorso e dire che «almeno non siamo in Italia»: magari si impegneranno un po’ di più per dimostrare di sapersela cavare in un Paese diverso, che non sentono familiare, ma in cui il sistema ha un funzionamento definito, e se decidi di entrarci ci sono delle regole chiare. Non sappiamo la ricetta per uscire da questo buco nero, ognuno avrà la sua, ma intanto accorgersene è, a parere di chi scrive, un campanello d’allarme importante per mettere fine alla discesa e invertire la rotta. Forse la chiave è iniziare a chiedere di più, non solo a se stessi ma anche a chi gestisce la cosa pubblica, sia a livello statale che locale.