Il temuto aumento dei prezzi del cibo sta diventando realtà. La Banca Mondiale ha lanciato il 30 agosto un “hunger warning” (letteralmente “allarme fame”) dovuto alla siccità che si sta registrando in Europa orientale e nella regione del Midwest, Stati Uniti. Ne avevamo parlato circa due mesi fa su queste pagine, riportando come da alcuni anni le previsioni di siccità (prima ancora del suo effettivo verificarsi) nelle aree in cui si concentra la produzione mondiale di grano e altri cereali si accompagnano a un incremento notevole del prezzo, in vista di raccolti scarsi. Poi, almeno finora, le previsioni non si sono tradotte in una reale diminuzione della produzione, ma l’aumento dei prezzi si è comunque verificato, dando origine a fenomeni speculativi e causando tensioni e rivolte nelle zone più povere del pianeta, in cui quegli stessi prodotti erano improvvisamente troppo cari per milioni di persone.

All’epoca del nostro precedente articolo ci avvicinavamo pericolosamente alla quotazione record del 27 giugno 2008, quei 7,99 dollari al bushel (unità di misura per i cereali negli Usa) che precedettero una grave crisi alimentare. Oggi (mentre scriviamo è disponibile il dato del 4 settembre) siamo a 8,45 dollari, ben oltre la soglia limite di quattro anni fa.

Si possono fare diverse considerazioni di fronte a questi dati. Innanzitutto, l’allarme della Banca mondiale ha un duplice effetto. Ha il merito di puntare a spostare l’attenzione della politica sulla questione, come ha cercato di fare il presidente Jim Yong Kim, secondo cui «Gli Stati dovrebbero rafforzare i propri programmi mirati per allentare la pressione sugli strati più vulnerabili della popolazione, e mettere in atto politiche adatte». È anche vero, d’altro canto, che annunci del genere hanno l’effetto collaterale di prestare il fianco alla speculazione.

Se la Banca mondiale dice che c’è il rischio di una carestia globale, il mercato reagisce come se la carenza di alimenti fosse già in atto, e quindi i prezzi si alzano. Poco importa se nei prossimi mesi le piogge torneranno a irrigare i campi e i raccolti saranno in linea con gli altri anni, la crisi alimentare, o meglio i suoi effetti, saranno comunque reali. È inoltre poco credibile che la politica dei singoli Stati possa fare qualcosa per scongiurare tali dinamiche, giacché la concentrazione della produzione in poche aree del mondo, in cui si esercita una coltivazione intensiva destinata alla distribuzione su scala mondiale, mette in moto un meccanismo che non può essere scalfito dall’intervento delle politiche nazionali.

Le proposte per uscire dal tunnel, alla luce di ciò, non possono che essere quelle che già conosciamo. Diversificare le produzioni, in modo da non dipendere esclusivamente da pochi cereali la cui produzione è legata al clima di poche (per quanto grandi) aree del pianeta. Inoltre, come fa notare l’agronomo Davide Ciccarese sul suo blog per il Fatto Quotidiano, «Ci sarebbero molte alternative interessanti, più sostenibili, più redditizie e maggiormente nutritive. Il miglio, il kamut, il grano saraceno, l’amaranto e poi chissà quante altre opportunità. Bisognerebbe cogliere questi momenti di profonda crisi per prendere in mano la sfida e coltivare più diversità e dare così un prodotto migliore per una dieta variegata e nutritiva. Le coltivazioni industriali hanno creato una dieta povera, banalizzato il paesaggio e reso instabile la redditività agricola. È arrivato il momento di cambiare partendo dalla terra, senza dover attendere altre estati siccitose». E poi, come già proponevamo due mesi fa, la politica deve impedire -e questo può farlo- che si possa speculare sulla fame, con un accordo internazionale che freni le operazioni finanziarie volte a guadagnare sulle oscillazioni del prezzo del cibo.