Spesso, quando prendiamo una multa, ancora vittime dell’adrenalina e dal disappunto, pensiamo alla percentuale che finirà nella busta paga dell’agente, sul totale della sanzione. Ma c’è una percentuale ben più importante da considerare, ossia il 50 per cento dei proventi derivanti da contravvenzioni, che gli enti locali dovrebbero investire per migliorare la sicurezza stradale. Lo stabilisce l’articolo 208 del codice della strada, specificando anche le diverse quote secondo le quali andrebbero distribuiti gli interventi: miglioramento della segnaletica (almeno il 12,5 per cento del totale), controlli della polizia locale (almeno il 12,5 per cento), manutenzione delle strade, sicurezza degli utenti deboli, educazione stradale (25 per cento).
Uno studio della fondazione “Luigi Guccione”, ente morale per le vittime della strada (il documento si può scaricare qui), mostra che queste percentuali non sono rispettate nelle 14 maggiori città italiane. Non tanto a livello formale, quanto per la qualità della spesa, che impedisce l’innescarsi del principio virtuoso perseguito dall’articolo 208. Se è vero infatti che l’aumento delle vittime è dovuto in larga parte a comportamenti trasgressivi da parte degli automobilisti, è giusto che le sanzioni vadano a finanziare progetti e interventi per la sicurezza stradale.
Secondo lo studio, la percentuale degli investimenti collegati direttamente a quest’ultimo fine nel 2010 è stata mediamente del 10,6 per cento, mentre interventi specifici in sicurezza stradale hanno costituito l’1,2 per cento della spesa. Il resto delle quote è andato a finanziare spese correnti, spese di gestione di servizi ai cittadini, spese di funzionamento di uffici e strutture tecniche o amministrative. Certo, il rispetto della legge c’è, ma qualcosa non funziona se poi le statistiche dicono che siamo undicesimi nell’Europa a 15 in quanto a diminuzione di vittime della strada nel decennio scorso.
«Il fatto che i proventi di sanzioni comminate per reprimere comportamenti di guida trasgressivi -si legge nello studio- siano utilizzati anche (in alcuni casi prevalentemente) per alimentare la spesa corrente di funzionamento di servizi e apparati essenziali alla convivenza civile tende a determinare due effetti assolutamente indesiderabili: subordina l’esercizio di tali servizi ai proventi sanzionatori e, quindi, crea una oggettiva convenienza a mantenere stabile nel tempo tale gettito a prescindere dall’effettivo livello di trasgressione delle regole del codice della strada; disincentiva ogni altro impiego delle risorse finanziarie che fosse dettato dall’esigenza di rimuovere un determinato fattore di rischio, di migliorare i livelli di sicurezza. In definitiva, una elevata quota di proventi impiegata per spese correnti di funzionamento e gestione determina una oggettiva competizione tra investimenti in sicurezza stradale e sopravvivenza/sviluppo di attività essenziali al funzionamento dell’amministrazione locale».
L’incapacità di determinare sostanziali miglioramenti nella sicurezza stradale, come sarà chiaro a questo punto, non è figlia di una complessiva esiguità delle risorse, poiché nel quinquennio 2006-2010 i 14 comuni hanno dedicato alle finalità previste dall’articolo 208 mediamente 489 milioni di euro l’anno, per un complesso di 2,44 miliardi di euro, con una spesa pro capite annua di 53 euro. E non deriva nemmeno dal mancato rispetto formale della norma: al contrario la maggior parte dei comuni dedica alle finalità indicate dall’articolo 208 ben più del 50 per cento previsto. «I limiti -conclude lo studio- sono piuttosto da ricercare nella bassa qualità della spesa. Ciò implica anche che il problema non consiste nell’aggiornare o modificare la destinazione delle quote riservate, ma che è necessario intervenire sulla qualità dei processi decisionali e sulle procedure tecniche che organizzano la spesa alimentata dai proventi ex art. 208 e, più in generale, la spesa in sicurezza stradale».