Immaginate di entrare nella vostra azienda e sentire improvvisamente il terreno scuotersi, vedere le pareti scricchiolare, le colonne portanti che credevate inamovibili riempirsi di crepe e gli impianti in cui avete investito la vostra vita danneggiarsi irreparabilmente. È successo a Walter Belluzzi il 29 maggio di quest’anno, nel suo capannone industriale a Mirandola (Modena). La seconda grande scossa di terremoto -dopo la prima del 20- ha messo in ginocchio l’azienda metalmeccanica, e con essa 60 famiglie che ancora oggi si reggono sull’ammortizzatore sociale della cassa integrazione, perché l’attività non è ancora potuta riprendere, nonostante gli sforzi di ristrutturazione. «Si parla di danni per milioni di euro -spiega Belluzzi, dirigente d’azienda e presidente di Avis provinciale Mantova-, per i quali abbiamo dovuto fare ricorso al credito, che, seppure agevolato, nei prossimi anni andrà restituito. Qui di promesse se ne sono sentite tante, ma di aiuti veri e propri non se ne sono visti. Noi stiamo provando a farcela da soli, ma ci sentiamo trascurati».
L’umore di Belluzzi non è dei migliori mentre ci spiega la situazione a sette mesi dal sisma. E parla uno che da subito si è rimboccato le maniche per dare un futuro all’azienda e alle persone che ci lavorano: «Da Mirandola non ci muoviamo -afferma-. Abbiamo iniziato qui 50 anni fa e la nostra attività resterà sul territorio. In questi mesi abbiamo cercato di non lasciarci sfuggire troppi ordini e clienti. Ma quelli, se anche gli aiuti arriveranno, non ce li restituisce nessuno. Abbiamo lavorato in un ufficio allestito in un container fino a dieci giorni fa. Entro febbraio ci poniamo l’obiettivo di riaprire almeno due reparti, per tornare totalmente operativi l’estate prossima, a un anno dal sisma».
La situazione della comunità è tuttora difficile. Molte attività sono riprese in container e altri locali un tempo dismessi. Le scuole, attualmente inagibili, sono riprese (parzialmente) in prefabbricati di nuova installazione. Ci sono nuove unità abitative per chi ha perso la casa. Ma il percorso per un ritorno alla normalità è ancora lungo. Le unità di raccolta delle Avis di Mirandola e Medolla sono rimaste chiuse per molto tempo, perché anche l’ospedale è stato danneggiato. E poi resta la paura: «A livello psicologico siamo molto provati -riprende Belluzzi-. Ormai c’è la fobia dei luoghi chiusi, le persone hanno paura a entrare in edifici di più piani. Io stesso per un mese ho vissuto in un camper, fuori dalla mia abitazione, con la mia famiglia. Il terremoto ha cambiato la nostra prospettiva, le nostre abitudini. Quando si entra in una stanza per prima cosa si guarda il soffitto, per controllare che sia intatto. Ogni tanto poi si percepiscono piccole scosse: ci si guarda negli occhi, in silenzio, si aspetta che finiscano. Poi si torna a respirare e a occuparsi delle proprie faccende cercando di non dare peso alla cosa».
Per quanto riguarda la ricostruzione, i primi contributi di quei 6,5 miliardi di euro fissati dalla Regione non arriveranno prima del 15 gennaio, e la preoccupazione è per l’eccessiva burocrazia che grava sulla loro erogazione. «Ricordo che nel caso di L’Aquila il trattamento fiscale per aziende e lavoratori fu molto diverso -spiega Belluzzi-. I contributi allora furono versati ai dipendenti e non trattenuti dagli stipendi, con l’impegno a versarli in un secondo momento allo Stato, ma nella misura del 40 per cento e distribuiti in un piano di cinque anni. Qui all’inizio il trattamento è stato lo stesso, ma ora è stato chiesto alle aziende di restituire quanto non pagato, senza sconti né rateizzazioni, e quindi ci sono stati dipendenti che si sono ritrovati con la busta paga prosciugata. Non vogliamo ovviamente metterci in alcun modo “in competizione” con i terremotati abruzzesi, ma ci chiediamo: siamo nello stesso Paese? Se sì, perché la nostra disgrazia sembra avere un peso diverso?».
Alcuni segnali di ritorno alla normalità iniziano a intravedersi in questo buio politico: «Oggi saranno smobilitati gli ultimi presidi di gruppi esterni dei Vigili del fuoco. Cessa quindi in qualche modo lo stato d’emergenza. Gli ultimi campi sono stati smantellati e quindi nessuno vive più nelle tende. Sono segnali importanti. Ma resta il fatto che se non fosse per il contributo di privati, associazioni, protezione civile e volontari oggi la situazione sarebbe molto diversa».