Un articolo di Simone Fanti sul blog InVisibili porta l’attenzione su un tema spinoso quanto poco o per nulla trattato dai media, sempre presi a parlare di immigrazione in termini di numeri (quanti sbarchi, quanti morti, quanti dispersi) e luoghi (le coste di Catania, Lampedusa, Porto Empedocle). La disabilità esiste in tutto il mondo, ma non dappertutto esistono sistemi sanitari in grado di garantire un’adeguata assistenza ai portatori di handicap. Il “diritto alla fuga” ha quindi tutto un altro peso quando chi scappa dal proprio Paese non può farlo camminando (se non correndo) sulle proprie gambe. Riportiamo qui uno stralcio, mentre qui potete trovare la versione integrale.

[…] Ma se i numeri spaventano, la spersonalizzazione alimenta la diffidenza. Solleviamo quindi quel velo che impedisce di guardare i volti e gli occhi spauriti di quei bambini e di quelle donne. Tra gli occupanti di quel fatiscente barcone c’erano anche due persone paraplegiche, «Due persone che non potevano muovere le gambe», racconta uno dei soccorritori. «Li abbiamo portati a braccia fin sulla spiaggia dove li abbiamo adagiati in attesa che venisse loro prestato il primo soccorso, gli fosse dato qualcosa da mangiare e tanto da bere per ovviare alla disidratazione». Donne gravide, bambini, molti dei quali sotto i tre anni di vita, e due persone con disabilità, ecco chi sono coloro che alimentano gli incubi di alcuni. Uomini e donne, in questo caso, fortunati a essere riusciti nella traversata su un barcone di fortuna e a essere stati raccolti dalla Guardia costiera e dai bagnanti. A non essere finiti nelle mani di qualche organizzazione criminale per essere poi istradati verso il crimine, la prostituzione o una vita da mendicanti a raccogliere la poche elemosine a bordo di qualche strada cittadina.

Ogni tanto però provo a calarmi nelle vesti di quei due paraplegici di 40-45 anni che ora sono in un centro di accoglienza. Difficile forse con la pancia piena e un’assistenza sanitaria che pur con molte pecche funziona. Ma cosa avrei fatto se fossi nato nella parte povera del globo, in un posto dove l’aspettativa di vita di una persona con disabilità non è molto lunga? Magari in un luogo dove il sibilo dei proiettili non arriva dallo schermo della televisione, ma da un fucile di un cecchino. Domanda retorica, avrei cercato una via d’uscita o, a dirla come Silone, un’uscita di sicurezza. Voi no?

Gli sbarchi si susseguono, complice il bel tempo e di quelle persone non resta che la foto: alcuni otterranno forse il passepartout di profughi e troveranno rifugio nel Belpaese, altri verrano riconosciuti come immigrati clandestini secondo la legge Bossi Fini e rispediti al Paese di origine. Alcuni scapperanno, forse, i più abili – dubito di vedere una persona in sedia a rotelle fuggire dal centro di prima accoglienza scavalcando la recinzione, così come dubito di vedere una donna gravida fare lo stesso. Di nuovo i più fragili pagheranno. Ma tranquilli, non li guarderemo negli occhi mentre tornano mesti in patria essi sono già rientrati nell’invisibilità.