Domani ricorrono cinquant’anni dall’assassinio del pastore e attivista politico Martin Luther King Jr. Lo storico Massimo Teodori ne fa un ritratto, unito al suo personale ricordo, sulla Domenica del Sole 24 Ore del primo aprile, che riportiamo di seguito.
Ero seduto al caffè Mediterraneum di Berkeley il 4 aprile 1968 quando alle 6 del pomeriggio Martin Luther King, non ancora quarantenne, fu assassinato a Memphis, Tennessee. Frequentavo abitualmente quel caffè, punto d’incontro del “Movimento” in California, nel periodo in cui preparavo The New Left: a Documentary History, il volume pubblicato nel 1969 e segnalato come “libro del giorno” dal «New York Times». Diffusasi la notizia della morte di King, giunsero al caffè molti leader giovanili tra cui Tom Hayden di Students for Democratic Society (SDS), Mario Savio, protagonista del Free Speech Movement, i giornalisti di «Ramparts», numerosi attivisti bianchi e neri dei diritti civili e contro la guerra e svariati hippies. Nella discussione che seguì, ci fu un generale accordo sul fatto che quell’assassinio aveva eliminato l’unico leader afroamericano capace di unire bianchi e neri in un movimento riformatore che poteva affrontare le difficili questioni del momento: razzismo, povertà e militarismo. Il giudizio espresso nel vivo di quell’ennesimo dramma (dopo gli assassinii di John Kennedy e Malcom X) coglieva in pieno l’autentico significato che aveva avuto l’azione di King nelle ultime stagioni. In un secolo di lotte non si erano mai manifestate personalità simili capaci di guidare con altrettanta maestria il movimento dei neri e di incidere così profondamente nelle istituzioni. Non Frederick Douglass, ex schiavo e candidato abolizionista alla vice presidenza nel 1878 con un partitino dei diritti, non Booker T. Washington, scrittore ed educatore integrazionista, non W.E.B. Du Bois, intellettuale e direttore della National Association for the Advancement of Colored People (NAACP) all’inizio del Novecento e poi separatista di sinistra, e neppure Marcus Garvey, nazionalista nero, che negli anni Trenta aveva predicato il ritorno all’Africa.
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, il pastore battista King era stato l’artefice, il coordinatore e il simbolo delle lotte per i diritti civili condotte con una visione strategica che integrava la mobilitazione di massa con l’azione diretta nonviolenta, la disobbedienza civile di neri e bianchi con la pressione su Presidenza e Congresso per abolire la segregazione che persisteva fin dalla Guerra civile. In quel decennio la leadership di King con la sua organizzazione – la Southern Christian Leadership Conference (SCLC) – si consolidò attraverso una serie di tappe punteggiate da scontri drammatici: dopo la sentenza della Corte suprema per la desegregazione scolastica del 1954, vi furono il boicottaggio degli autobus di Rosa Parks a Montgomery, Alabama nel 1956, numerosi sit-in, freedom riders di bianchi e neri nel profondo sud, e campagne di registrazione al voto, culminati in quella “Marcia per il lavoro e la libertà” di Washington dell’agosto 1963 in cui King pronunciò il famoso discorso I Have a Dream che precedette l’approvazione nel 1964 e 1965 delle fondamentali leggi sui diritti civili, il Civil Rights Act e il Voting Rights Act.
Il 1965 fu per tutta l’America, ed anche per King, un anno di sconvolgimenti. La “questione nera” non riguardava più la desegregazione al Sud ma la condizione dei poveri ed emarginati dei ghetti urbani come Harlem New York, Watts Los Angeles, Chicago e altre città dove erano scoppiati riots violenti e sanguinosi. Stokely Carmichael, presidente del comitato nonviolento per i diritti civili – Student Nonviolent Coordinating Committe (SNCC) – enunciava il Black Power, una formula separatista variamente declinata come dottrina culturale-identitaria, potere politico o economico, e come autodifesa armata secondo la pratica del Black Panthers Party risoltasi tragicamente. Alcuni esponenti del Potere nero alla ricerca di un’ideologia alternativa all’integrazionismo e alla nonviolenza si richiamavano a Malcom X, l’intellettuale nero convertitosi all’islamismo che era stato assassinato da un correligionario nel febbraio 1965 prima di poter divenire effettivo leader di movimento oltre che teorico del nazionalismo identitario. Fin dalla marcia di Washington (intitolata a “lavoro e libertà”) il raggio di azione di King si era esteso secondo una visione multirazziale e multiculturale che escludeva il separatismo nero e qualsiasi supremazia di razza e cultura. Le sue campagne si orientavano sempre più verso i problemi della povertà e l’opposizione alla guerra in Vietnam che coinvolgeva milioni di giovani chiamati alle armi. Ma fu proprio l’affermarsi della leadership carismatica che alimentò l’ostilità verso King dei suprematisti bianchi e dei radicali afroamericani, ispirati ai settori più violenti del Potere nero. Il messaggio del leader, vittorioso nella battaglia per la desegregazione nel sud, trasmetteva non solo la carica ideale della nonviolenza che si rifaceva alla tradizione cristiana (quaccheri) e libertaria (Henry David Thoreau) americana, ma si dimostrava uno strumento efficace a influenzare con il consenso delle masse la “grande” politica come era accaduto con i Kennedy (soprattutto Robert, assassinato anch’egli il 6 giugno 1968) e Lyndon Johnson, impegnatosi personalmente con i congressmen per fare approvare le leggi sui diritti civili.
Dunque, l’ostilità per King che sboccò nell’assassinio di Memphis fu anche l’effetto della crescita della sua popolarità come leader interrazziale. Edgar Hoover, direttore per quarant’anni dell’Fbi sotto sei Presidenti, nutriva un tale odio da suprematista bianco che quando fu conferito a King nel 1964 il premio Nobel per la pace, gli inviò in anonimo una registrazione delle sue prestazioni sessuali extraconiugali con il seguente biglietto: «King, c’è solo una cosa che ti rimane da fare se non vuoi che siano rese pubbliche le tue attività fraudolente e anormali, suicidati!». Altrettanto pretestuose e infondate furono, e sono, le contestazioni dei cantori del Potere nero circa il “falso mito” sorto intorno al pastore nonviolento in contrapposizione con la “vera” leadership rivoluzionaria di Malcom X. Per non parlare della letteratura dozzinale fiorita anche in Italia che rappresenta un «King, predicatore della nonviolenza, invenzione del potere dei bianchi che approvava la repressione militare scatenata dalle strutture di potere».
(Photo by Jerónimo Bernot on Unsplash)