C’è un allarme innescato e pronto a scattare. O magari non farà neanche notizia, ma ne sconteremo le conseguenze nei prossimi mesi. Se davvero, come previsto, nelle prossime settimane non pioverà nel Midwest, la regione degli Stati Uniti dove si concentra la produzione del grano, la scarsità dei raccolti porterà a un aumento dei prezzi del cibo su scala globale. E questo è normale che succeda. Quando l’offerta non è in grado di soddisfare la domanda, il prezzo del bene sale. È la regola base dell’economia capitalista. Ma quando di mezzo si mette la finanza, gli effetti di un allarme lanciato possono essere più gravi del fatto in sé (che questo si verifichi o meno). L’allarme siccità ha già avuto come effetto l’impennata dei futures sul mais.

Proprio come titoli finanziari, le quotazioni di questi contratti possono salire o scendere in base a informazioni, indiscrezioni, previsioni sulle produzioni agricole. Per dare l’idea, un mese fa, il 6 giugno 2012, questi titoli venivano quotati 5,19 dollari al bushel (unità di misura per i cereali negli Usa), contro i 7,06 di ieri. Un dato molto vicino a quei 7,99 dollari del 27 giugno 2008, quando alla crisi finanziaria si accompagnò una crisi alimentare (aggravata dalla prima) che provocò tensioni e rivolte nelle zone più depresse del pianeta, dove improvvisamente la gente non poteva più permettersi il cibo che aveva mangiato fino al giorno prima. In realtà, allora, non fu una crisi dei raccolti a provocare l’aumento dei prezzi, bensì dinamiche di lobbying simili a quelle a cui stiamo assistendo oggi.

Fu annunciato un periodo di siccità, i prezzi aumentarono a livello globale, e poi la produzione agricola si rivelò addirittura superiore a quella degli anni precedenti. Oggi ci stiamo preparando a vivere qualcosa di simile. La siccità sembra nuovamente frenare l’agricoltura, e subito la reazione della borsa in cui si negoziano i prezzi dei cereali (quella di Chicago) risponde con un aumento improvviso dei prezzi (molto più brusco rispetto a quattro anni fa, quando la soglia degli 8 dollari fu sfiorata dopo mesi di aumenti progressivi). I dati diffusi dalla Fao sul prezzo del cibo di giugno, diffusi il 5 luglio, ancora non riflettono le oscillazioni di questi giorni, quindi è probabile che si debba attendere ancora un mese prima che la situazione sia chiara a tutti e ci si renda finalmente conto della situazione che -di nuovo- si sta delineando.

A dimostrazione della globalizzazione -anche- di questo fenomeno, il titolo legato al mais quotato alla borsa di Milano (Etfs Corn) è schizzato alle stelle e il 5 luglio ha fatto registrare scambi per un milione e 100mila euro. Insomma, anche se non si dovrebbe, sulla fame si specula eccome, negli Stati Uniti come qui da noi. È una questione di cui la politica deve occuparsi subito, e anzi ci chiediamo come sia possibile che oggi, dopo l’esperienza del 2008 (ma anche l’estate scorsa accadde qualcosa di simile), si lasci ancora libertà di speculazione su un bene fondamentale come il mais, base dell’alimentazione per milioni di persone in diverse parti del mondo. Torneremo a parlarne nel corso delle prossime settimane, intanto vi segnaliamo la campagna “Sulla fame non si specula”, che sta cercando di sensibilizzare la politica e le persone verso questo tema.