Decidere in che modo distribuire il vaccino contro il coronavirus, quando sarà pronto, è una cosa terribilmente complicata. Secondo Michael Springborn – economista che collabora con matematici ed epidemiologi su questo tema – senza un vaccino, nei primi sei mesi del 2021, il coronavirus potrebbe causare fino a 179 mila morti negli Stati Uniti. Che potrebbero scendere a 88 mila introducendo un vaccino in maniera graduale, somministrandolo al 10 per cento della popolazione ogni mese e distribuendolo in maniera uniforme senza dare priorità ad alcun particolare gruppo sociale. Ma farlo in maniera mirata, per esempio per fasce d’età o per tipologie di lavoro (privilegiando chi fa professioni più a rischio di contagio) potrebbe salvare tra le 7 mila e le 37 mila ulteriori vite, a seconda della situazione. È uno dei tantissimi scenari dipinti dagli studiosi con cui ha parlato (e di cui ha letto le ricerche) il giornalista Jill Neimark su Undark.

Ridurre le vittime o rallentare il contagio?

C’è grande fermento nel mondo scientifico perché, come ha detto Howard Forman, docente di salute pubblica all’università di Yale, le ultime campagne di vaccinazione di massa con vaccini totalmente nuovi sono state quelle contro il vaiolo e la poliomielite. In tutti gli altri casi le vaccinazioni hanno proceduto in maniera lenta e progressiva, nel corso di anni. È dunque un terreno in cui ci si avventura molto raramente (sono passati decenni da entrambi i casi citati), e le incognite sono quindi moltissime. Con almeno tre vaccini in fase avanzata di studio (Pfizer-BioNTech, Moderna e AstraZeneca), i matematici ed epidemiologi che si stanno confrontando da mesi sulle modalità più efficaci con cui distribuire il farmaco sono fermi a un grande quesito: bisogna privilegiare la massima riduzione delle vittime o il rapido arresto dei contagi? Il Covid-19, com’è ormai noto, è particolarmente letale per le persone oltre i 65 anni e con altri problemi quali obesità, diabete e asma. Allo stesso tempo, coloro che ne favoriscono maggiormente la diffusione sono anche coloro che reagiscono meglio all’infezione, ossia i giovani tra i 20 e i 30 anni. Da qui il conflitto, etico e matematico, che si pone agli studiosi. Molti sono convinti che privilegiare il rallentamento del contagio, dando priorità ai giovani nella distribuzione del vaccino, sia anche il miglior modo per proteggere i più anziani e quindi ridurre i tassi di mortalità. Ma non tutti sono d’accordo.

Diversi scenari

Secondo l’epidemiologo di Harvard Marc Lipsitch, che con altri ricercatori ha pubblicato uno studio in versione preprint, qualunque siano le condizioni immesse nel loro modello, la risposta è sempre la stessa: prima vaccinare gli anziani per ridurre al minimo i morti, poi il resto della popolazione. La cosa totalmente nuova del coronavirus rispetto alle campagne del passato è che rimarrebbero fuori dalle prime fasi di distribuzione i più piccoli, che al contrario di altre malattie non sembrano rappresentare i principali vettori di diffusione. Un altro modello elaborato da Laura Matrajt, con alcuni colleghi, prevede che con un vaccino efficace al 60 per cento, disponibile in dosi sufficienti da coprire almeno il 60 per cento della popolazione, vaccinare gli adulti tra i 20 e i 50 anni e i bambini ridurrebbe al minimo le vittime. Il modello è molto preciso anche nel dire quanto potrebbe essere efficace in caso di diverse strategie di copertura della popolazione. Per esempio, se il 20 per cento delle persone è immune (perché infettata e guarita), per dimezzare il numero di morti basterebbe vaccinare il 35 per cento della restante parte delle popolazione, ipotizzando un vaccino efficace al 50 per cento (l’avevamo detto che è complicato). Bisogna poi considerare che ci sono numerosi altri fattori, oltre all’età, che possono determinare l’efficacia di una campagna. Per esempio il livello di connessione in diverse aree o gruppi sociali. Dove è comune la convivenza tra molte persone di diverse generazioni (per esempio in India, o tra gli afroamericani e latinoamericani negli Stati Uniti), gli anziani rischiano maggiormente di essere contagiati. C’è poi la questione dei lavoratori essenziali. Nel modello di Springborn e colleghi, il numero di vittime si riduce drasticamente quando è data priorità di vaccinazione ai lavoratori di servizi essenziali di età compresa tra i 40 e i 59 anni.

Per quanto accurati possano essere questi o altri modelli, comunque, non dicono mai tutto. Per esempio le minoranze o le persone in condizione di marginalità (su cui spesso mancano dati completi e affidabili) sono tra le più colpite dal virus, ma un’eventuale campagna che privilegiasse queste fasce potrebbe scontrarsi con uno scetticismo verso lo Stato e i suoi interventi. Vaccinare la popolazione mondiale contro il coronavirus sarà un percorso lungo e pieno di ostacoli, e sarebbe un grave errore ignorarne la complessità.

(Foto di JESHOOTS.COM su Unsplash)

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