Non è un segreto che Internet abbia avuto un impatto molto pesante sul mercato discografico mondiale. A partire dai primi anni 2000, le vendite discografiche hanno cominciato a subire un declino inesorabile che ha trasformato completamente l’industria musicale. Dal 2016 però i servizi di streaming stanno contribuendo a far rivedere il segno più nei bilanci delle compagnie e del settore in generale, seppure i numeri non sono più quelli degli anni ’80 e ’90. Il problema è che la percentuale riservata agli artisti per ogni ascolto online è molto bassa, quindi i grossi ricavi vanno ai pochi nomi che riescono a fare grandi numeri, mentre per gli altri restano piccolissime fette di una torta che si è molto ridotta. In tutto questo, una delle piattaforme streaming più apprezzate (soprattutto da quelle emergenti), SoundCloud, rischia di chiudere, secondo quanto scritto dal sito di tecnologia TechCrunch. Segnali contraddittori, che rendono difficile farsi un’idea chiara della situazione. Proviamoci.
Suonavano come un pugno nello stomaco le parole del grande produttore discografico Quincy Jones nel 2015 quando, intervistato da Fortune, rispondeva così a una domanda sullo stato di salute dell’industria musicale: «Tesoro, non c’è nessuna industria musicale. C’è il 90 per cento di pirateria ovunque nel mondo. Si prendono qualsiasi cosa. […] Non puoi fare uscire un album, perché nessuno compra più dischi». Anche sulla digitalizzazione delle vendite Jones era piuttosto netto: «Non significano nulla. Vendono 4 milioni e mezzo di album e pensano sia un record. Stiamo scherzando. Ne vendevamo altrettanti in un fine settimana negli anni ’80. Oggi nessuno ti paga».
Il 2016, secondo quanto scritto dal Guardian qualche mese fa, potrebbe essere ricordato come l’anno del cambio di rotta, dopo anni di discesa verticale. E i meriti di questa inversione di tendenza vengono proprio dallo streaming. Si è trattato del secondo anno di crescita per il settore, che ha fatto registrare un fatturato complessivo di 15,7 miliardi di dollari. Numeri che probabilmente fanno sorridere uno come Quincy Jones, ma vuol dire che alla fine il modello seguito negli anni da piattaforme come Spotify (poi seguito con piccole varianti da Apple Music, Tidal, Deezer e tanti altri) sta iniziando a pagare. Corre un moderato ottimismo tra gli addetti ai lavori, anche se nessuno se la sente di rilassarsi troppo. Prima di arrivare a questi incoraggianti risultati bisogna ricordare che un servizio popolare come Spotify non ha prodotto ricavi (anzi era in perdita costante) per un decennio, fino al 2015 compreso. Mentre però le vendite di album (sia fisiche sia in download) continuano a calare, lo streaming sembra avere la forza per cambiare le sorti del mercato.
I problemi per gli artisti però sono altri. Il data journalist inglese David McCandless ha pubblicato nel 2015 un’infografica che mostra i guadagni degli artisti derivanti dalle vendite degli album rispetto agli ascolti in streaming (dividendo tra musicisti indipendenti o sotto contratto di case discografiche). Per farlo prende come esempio tipo un artista americano che intenda guadagnare 1.260 dollari al mese. Con i CD gli basterebbe venderne 105 unità a 12 dollari, nel caso non abbia un contratto con una major. Se di mezzo si mettono degli intermediari la quantità sale, perché una percentuale va al distributore. Una grossa fetta va poi alla casa discografica, se c’è.
Per fare un esempio, se l’artista fosse sotto contratto e si affidasse alle vendite su iTunes, il suo disco dovrebbe essere scaricato 547 volte al mese a un prezzo di 9,99 dollari. Passando allo streaming, le cifre aumentano di molto (non i guadagni, l’obiettivo resta arrivare a 1.260 dollari al mese): 172.206 ascolti su Google Play, 1.260.000 ascolti su Deezer (coinvolgendo almeno l’8 per cento del totale degli utenti per sbloccare il pagamento), 1.117.021 ascolti su Spotify (e il 2 per cento degli utenti). YouTube vince su tutti, con 4 milioni e 200mila ascolti necessari (e lo 0,5 per cento degli utenti) per ottenere il suddetto pagamento (tutti gli esempi fatti sullo streaming riguardano artisti sotto contratto, in caso contrario i numeri si riducono, ma ovviamente la visibilità del musicista è minore). Tornare alle cifre relative alla vendita di CD dopo aver letto questi ultimi numeri è piuttosto spiazzante, sembra di parlare di epoche lontanissime nel tempo. Eppure è così che funzionava, solo fino a 15 anni fa. Parlare di ottimismo e di pericolo scampato è dunque eccessivo e le parole di Quincy Jones, al momento, non possono essere del tutto smentite.
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