Lo spettacolo teatrale “Sul concetto di volto nel Figlio di Dio”, di Romeo Castellucci, ha generato reazioni di protesta da parte di “cattolici oltranzisti” durante la sua messa in scena parigina. Oggetto della polemica una scena in cui dei ragazzi lanciano sassi e granate contro il volto di Cristo, rappresentato in un quadro di Antonello da Messina posto come fondale, mentre in sala aleggia odore di escrementi. La pièce ha debuttato martedì sera al “Franco Parenti” di Milano, e le proteste non sono mancate, nonostante nell’edizione italiana la scena sia stata totalmente rimossa (scelta tecnica, precisa il regista, presa molto prima che scoppiasse il caso). Pubblichiamo una lettera inviata da Marco Calini, presente alla “prima”, al direttore del teatro, Andrée Ruth Shammah.
Caro direttore,
innanzitutto grazie per la serata di grande teatro che ha fortissimamente voluto regalare con “Sul concetto di volto nel Figlio di Dio” al pubblico milanese e grazie anche per l’opportunità che ha voluto dare al pubblico presente con il fuoriprogramma di un dibattito post. Occasione irripetibile per parlare di uno spettacolo finalmente post spettacolo.
Questo lei ha fatto, e non poteva fare di più, ma -va detto- occasione sprecata, perché gli interventi della prima parte di questa discussione, quelli destinati a essere raccolti in una pubblicazione, quelli che saranno scritti, e dunque rimarranno, tramanderanno la memoria di un colossale fraintendimento. Di cosa si parla quando si parla di teatro? Alla luce della prima parte del dibattito, non certo di teatro. Esattamente come gli irriferibili insulti piovuti ante spettacolo. Se per questi ultimi, nella compresenza del volto di Cristo e degli escrementi, c’era qualcuno di troppo, le voci del dibattito riagganciavano i due poli dello scandalo reclamandone il diritto alla coesistenza.
Il punto non è questo, e non perché banalmente tout se tient, ma perché l’unica cosa che veramente importi, a teatro, è come questi dialoghino. Quale linguaggio, quale dinamica prettamente teatrale ne giustifichi, in altre parole, la compresenza. Coerenza o gratuità, insomma. Questo è giudicare il teatro per qualunque spettacolo su qualunque palcoscenico del mondo; questo, a maggior ragione, sarebbe dovuto essere per la pièce di Romeo Castellucci, attaccata da giorni per motivi extra teatrali. Così non è stato.
Nel primo intervento Vito Mancuso ha parlato di tre angolature per giudicare lo spettacolo. Ha citato come prima quella artistica, che in realtà non è soltanto la prima: è l’unica. Così il teologo ha parlato da teologo, il filosofo da filosofo, esattamente come, giorni prima, i fascisti da fascisti. Nessun rispetto per il teatro. A scuola si diceva “sei uscito dal tema”, e il voto era dal 4 in giù. Quanto ci sarebbe da dire sul lavoro di Castellucci in quanto lavoro teatrale, parlando per una buona volta, e soltanto, nel merito? Quante volte capita di vedere in scena, come accade in questo lavoro, un’azione compiuta, e non un accenno, una stilizzazione o gli effetti introiettati dai personaggi?
Azione pura, e non l’atto di tanto teatro di ricerca. Forse lo scandalo è qui, vedere quello che non si è mai visto perché più quotidiano che quotidiano non si può; dimensione indagata dal teatro nei suoi risvolti intimo-psicologici al massimo, mai nelle viscere. Chi lo fa lo estetizza, realizza delle performance; qui no. Nulla di artificioso; è tutto naturale, è tutta vita, che piaccia o meno. Perché non si è parlato dell’effetto imbarazzo prodotto? Il teatro ha smesso di essere catarsi?
Castellucci, invece, se lo è ricordato. Perché non si è parlato del personaggio scena? Non solo il volto del Cristo, ma il salotto di casa; elemento vivo come mai accade, perché vivo della vita che, loro malgrado, le danno i due personaggi. Perché non si parla del controllo straordinario degli attori ai comandi di un marchingegno esplosivo? Non c’è esagerazione; mai sopra le righe. Si crede più semplice stare sul palcoscenico perché le battute cui si è costretti sono poche e sempre quelle? Al contrario. E il sigillo del lavoro, “Tu sei il mio Pastore/Tu non sei il mio Pastore”, non è forse professione di fede nel dna del Teatro fatta da un Amleto della quotidianità? … o non…? E cos’è questo se non teatro e teatro soltanto? Che basta al punto da essere autosufficiente e da non richiedere fuoripista fuori luogo e fuorvianti.
Grazie ancora per la lezione di teatro, quindi di civiltà, data a Milano
Marco Calini