Dopo l’ennesimo, apparente momento di svolta sull’introduzione nel codice penale del reato di tortura, il dibattito è stato nuovamente rinviato, e ormai se ne riparlerà da settembre. Ma l’autunno è il momento in cui ben più pragmatiche incombenze hanno la priorità: troverà il Parlamento il tempo di discutere di una questione di diritti umani in sospeso dal 1988? Il dibattito si è avvitato principalmente attorno a un aggettivo, “reiterate”, aggiunto da un emendamento della Lega Nord e successivamente tolto da un gruppo di senatori. Secondo il ministro dell’Interno Angelino Alfano sarebbe meglio rimetterlo. Egli si è poi si è congratulato per la decisione del Senato di sospendere la discussione, perché «non possono esserci equivoci sull’uso legittimo della forza da parte delle Forze di Polizia».
L’aggettivo in questione non è in effetti ininfluente sulla definizione di cosa debba costituire, giuridicamente, un episodio di tortura. Mantenendolo, l’articolo 1 della legge in discussione apparirebbe così: «Chiunque, con violenza o minaccia grave, cagiona reiterate lesioni o sofferenze fisiche o psichiche ad una persona, al fine di ottenere da essa o da altri informazioni o dichiarazioni ovvero di punirla per un atto che essa o altri ha commesso o è sospettata di aver commesso ovvero di intimorirla o di condizionare il comportamento suo o di altri, ovvero per motivi di discriminazione etnica, razziale, religiosa, politica, sessuale o di qualsiasi altro genere, è punito con la reclusione da tre a dieci anni. La stessa pena si applica a chi istiga altri alla commissione del fatto o non ottempera all’obbligo giuridico di impedirne il compimento». Come si può notare, in questa formulazione le violenze sono tortura in quanto reiterazione di un comportamento lesivo. Se si toglie reiterate, l’attenzione si sposta sul fatto di usare la violenza fisica o psichica per ottenere qualcosa, indipendentemente dal fatto che l’atto sia commesso una o più volte.
Su ZeroNegativo abbiamo espresso più volte il nostro pensiero sul reato di tortura e sulla necessità che sia introdotto presto nel nostro ordinamento. Del resto non è un pensiero solo nostro, visto che in questi termini si era espressa la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo nel 2015, in seguito alle violenze compiute dalla Polizia alla scuola Diaz nei giorni del G8 di Genova, nel 2011. Peraltro, per una crudele coincidenza, questo ennesimo rinvio è arrivato proprio a ridosso del 15esimo anniversario di quella lunga notte. Si potrà dire che l’istituzione del reato di tortura non è necessaria, in quanto nel codice penale sono già sanzionate tutte le azioni che concorrono a definirlo.
C’è chi sottolinea l’utilità unicamente “mediatica” dell’iniziativa, in quanto si tratta di una questione che muove le coscienze a causa di casi di cronaca che contribuiscono a focalizzarvi l’attenzione (come appunto Genova, ma anche il caso Regeni o quelli dei numerosi casi di eccesso di violenza da parte della polizia che ha portato alla morte di alcuni giovani dopo l’arresto, come i casi Cucchi e Aldrovandi). Si tratterebbe di “diritto spettacolo”, insomma, come già la politica. Invece, pensando soprattutto alle vittime e ai loro familiari, il fatto di chiamare le cose col loro nome, introducendo il termine tortura tra i comportamenti sanzionati dal codice, avrebbe innanzitutto l’effetto di garantire rispetto a chi ha subito violenze ingiustificate o esagerate. Questo oltre al vantaggio pragmatico di poter sfruttare tale dispositivo di legge come aggravante in sede processuale, nei casi in cui sia acclarato che di tortura si tratta. È vero dunque che ciò che chiamiamo tortura è già, di fatto, punito dall’ordinamento, ma introdurre il termine nel codice costituirebbe uno strumento importante per tutelare le vittime, lungi dall’essere unicamente l’affermazione ridondante di un principio.
Antonio Marchesi, presidente di Amnesty Italia, ha condannato con forza la presa di tempo del Parlamento: «Nel 2011, in occasione del decimo anniversario di Genova, avevamo parlato di una “macchia intollerabile e impunita nella storia dei diritti umani in Italia”. Siamo costretti a usare le stesse parole, cinque anni dopo. Cinque anni passati invano, dal punto di vista dell’adeguamento della legge italiana agli obblighi internazionali in materia di tortura, come più volte ricordato dagli organi di giustizia europei». Ancora più amara la constatazione con cui Luigi Manconi, a lungo sostenitore dell’iter di questa legge, ha chiuso un suo intervento: «Il delitto di tortura entrerà a far parte del nostro ordinamento, a voler essere ottimisti, tra due – tre – trent’anni anni».
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