Sulla mia pelle è un film senza fronzoli. Il tema affrontato è difficilissimo da rendere in pellicola. Si tratta di un caso di cronaca nera accaduto accaduto ormai nove anni fa, ma le cui vicende giudiziarie si protraggono fino a oggi, tra appelli e inchieste-bis. Non vogliamo entrare nel merito delle indagini giudiziarie, ma parlare del film non può prescindere da una pur breve ricostruzione dei fatti. Questi, asciugando al massimo, vedono il trentenne Stefano Cucchi fermato a Roma dai carabinieri nella notte del 15 ottobre 2009. Cucchi è in possesso di 21 grammi di hashish e alcune confezioni di cocaina, il che fa pensare a detenzione per fini di spaccio. Passa la notte in cella e il giorno dopo viene ascoltato in tribunale, con rito direttissimo.
Durante l’udienza Cucchi ha difficoltà a parlare e camminare e presenta evidenti ematomi. Il giudice fissa una nuova udienza a distanza di qualche settimana, che però non si terrà mai: Stefano Cucchi muore il 22 ottobre 2009 all’ospedale Sandro Pertini. Dopo quella prima seduta in tribunale, alla quale come familiare è presente solo il padre, alla famiglia di Cucchi sarà impedito fare visita al ragazzo o mettersi in contatto con lui. Lo rivedranno esanime, all’obitorio. Secondo le ricostruzioni processuali, Cucchi viene picchiato da alcuni agenti nella notte in cui i carabinieri dispongono la custodia cautelare. Al momento non esiste una conclusione condivisa e accettata su cosa abbia condotto alla morte di Cucchi. Ma è certo che nel pestaggio Cucchi ha riportato ferite gravi, tra cui due fratture alla colonna vertebrale, una alla mascella, un’emorragia alla vescica. Nel film si assiste, nella posizione passiva per eccellenza propria dello spettatore, alla morte di un giovane ragazzo che sbagliava di continuo.
Il film mostra un contesto familiare positivo, comprensivo, seppure esasperato per i continui problemi di Stefano. Si accenna a un suo passato in comunità per curare la tossicodipendenza. Man mano che la storia procede, il passato diventa sempre più prossimo, si capisce che la droga è un fantasma ancora molto vicino. Le reazioni emotive dei familiari di Stefano a quello che inizialmente vivono come l’ennesimo problema, l’ennesima preoccupazione, oscillano tra la condanna e la comprensione, tra l’esasperazione e l’empatia. Costretti dalla totale assenza di informazioni da parte delle autorità a costruirsi un proprio mondo interiore di ipotesi, dubbi e sospetti, essi vivono un dolore che colpisce a doppio taglio. Da un lato con una sofferenza personale, egoistica, del trovarsi in una situazione da cui vorrebbero volentieri liberarsi, per tornare a occuparsi ciascuno alla propria vita. Dall’altro soffrono per Stefano, che viene progressivamente liberato da qualsiasi colpa e ricoperto di comprensione e affetto, a prescindere dai suoi problemi.
Stefano sbaglia, in continuazione. Ed è pure sfortunato. All’improvviso si trova proiettato in una spirale senza via d’uscita, in cui ai suoi errori si somma la disumanità delle persone che dovrebbero occuparsi di lui, e non lo fanno. Una disumanità rappresentata in vario modo. Prima quella degli agenti in borghese (e teoricamente non in servizio) che lo accompagnano per i corridoi della centrale verso la stanza in cui si consumerà il pestaggio (in una scena che ricorda tanto Arancia Meccanica, ma senza le tinte grottesche del film di Kubrick). Una cattiveria progettata, voluta. Poi si susseguono vari gradi di disumanità: da quella di chi non vede, o finge di non vedere, i segni delle percosse. A quella degli agenti che cercano di mandare Stefano al pronto soccorso solo per non avere problemi, perché nessuno dica che non l’hanno fatto. Lo stesso personale medico non mostra particolare pietà o preoccupazione al cospetto di quella che è ormai una carcassa tumefatta (Cucchi nella settimana che va dal suo arresto alla sua morte perde 6 chili).
Ognuno sembra fare il proprio dovere, eppure Stefano viene di fatto lasciato morire. «Il paziente rifiuta le cure» sembra essere la formula che svincola chiunque dal prendersi anche solo un pezzettino di responsabilità verso la persona che ha davanti. Come se ognuno si sentisse liberato dal fatto di avere svolto il proprio compito, di aver messo un piccolo tassello in un puzzle pieno di buchi. Stefano sbaglia, continuamente. Forse poteva lanciare un grido d’allarme più convinto, più rumoroso, per fare in modo che la spirale si spezzasse. Invece si chiude in un silenzio disperato, privo di fiducia verso quel mondo che non gli perdona nulla. Sono tanti gli aspetti che lasciano disarmati di fronte a questo film così essenziale. Tra i tanti, la consapevolezza di non stare assistendo all’epopea di un eroe, che in quanto tale nella morte trova la propria gloria.
Qui si assiste alla vicenda di un ragazzo fragile, imperfetto, che sembra sentirsi schiacciato in dinamiche più grandi di lui. Magari era giusto arrestarlo, «una notte in cella gli può fare bene», dice a un certo punto uno dei suoi genitori. E invece il buio della cella diventa quello di un sistema che si inceppa e tira fuori il peggio di sé, spegnendo anche l’ultima speranza di Stefano. Che sbagliava, di continuo, ma non per questo meritava la fine che ha fatto.