
Sul cosiddetto equo compenso per la copia privata (leggi qui di che si tratta) si sta sfiorando il ridicolo. Anzi, forse si è andati anche oltre. Dopo aver confermato e inasprito una tassa che non tutela nessuno, se non chi è già più che tutelato (cioè gli artisti che guadagnano di più grazie ai diritti Siae), il ministro della Cultura Dario Franceschini ha visto le proprie parole sbugiardate da Samsung, che dopo Apple ha deciso di aumentare i prezzi dei propri prodotti solo per l’Italia. «Rivendico il diritto di criticare la ritorsione della Apple – aveva detto Franceschini –. Che ha scelto arbitrariamente di alzare i prezzi dei suoi prodotti aggiungendo, quasi come se fosse una provocazione, persino l’Iva». Piuttosto particolare che un ministro se la prenda direttamente con un’azienda che, per quanto costituisca un punto di riferimento nel mercato tecnologico, è libera di decidere le proprie politiche di prezzo e quindi di scaricare sui consumatori il sovrapprezzo di una tassa che evidentemente non condivide. Qualche giorno fa, anche Samsung, la principale concorrente di Apple, ha deciso di fare la stessa cosa. Possiamo consolarci constatando che l’Italia è l’unico Paese che riesce a mettere d’accordo due colossi commerciali che nel resto del mondo si fanno battaglia da anni a colpi di denunce per violazione dei rispettivi brevetti.
Come scriveva Andrea Biondi il primo agosto, infatti, «Ieri Samsung ha comunicato ai propri clienti in Italia (operatori telefonici, distribuzione specializzata, distributori) che con i listini ufficiali di agosto, in arrivo arrivo a giorni, saranno adeguati i prezzi di alcuni prodotti coinvolti dal decreto ministeriale che, come da dettami del decreto Bondi del 2009, era tenuto alla revisione triennale dei compensi per la copia privata».
Vedremo se la Siae ripeterà nei prossimi giorni la stessa “iniziativa” (sarebbe meglio chiamarla buffonata) messa a segno nei giorni scorsi, ossia comprare 22 iPhone a Nizza (dove costano meno) per poi regalarli a rappresentanti di varie associazioni. Una società che ha una storia di continui commissariamenti a causa di una gestione per nulla trasparente si è permessa di sprecare 15mila euro del patrimonio versato dai suoi 100mila associati per un’azione dimostrativa del tutto ridicola. Meglio sarebbe stato, suggerisce Guido Scorza, usare quei soldi per riconoscere i diritti d’autore ai tanti artisti che ogni anno versano la quota associativa salvo poi non riuscire neppure a coprirne il costo con i diritti Siae. «Forse, un altro Presidente, un altro Direttore Generale, un altro management della società ieri mattina, in conferenza stampa, anziché sperperare 15mila euro dei propri associati e giocare a mordere una mela, avrebbero assunto un impegno “sacro ed inviolabile” a ridurre la percentuale milionaria dei costi di gestione che la società trattiene sulla montagna di denaro che incassa e, soprattutto, a accorciare i tempi pachidermici che impiega per ripartire quanto incassato tra i legittimi destinatari».
Un’ulteriore conferma dell’assurdità di tutta la situazione arriva dal Regno Unito, dove nei giorni scorsi si è deciso che il consumatore (pardon, il produttore) non dovrà pagare alcun diritto per la copia privata: «Il sottosegretario che si occupa delle politiche sulla proprietà intellettuale, Lucy Neville-Rolfe, ha spiegato durante una seduta in Parlamento che i sistemi di “equo compenso” per le copie private sono “inefficienti, ingiusti e una complicazione burocratica, nonché uno svantaggio per chi già paga per un contenuto”». In molti in Italia sono giunti alla stessa conclusione, ma purtroppo non siedono sulle poltrone giuste.