Oggi si apre la quindicesima edizione dei Giochi paralimpici, che dureranno fino al 9 settembre. L’emittente inglese Channel 4, che si occuperà della copertura televisiva dell’evento, ha realizzato il bellissimo spot che vi proponiamo in questa pagina. Un filmato da pelle d’oca, che si conclude con un claim stupendo: «Meet the superhumans». Tre semplici parole che fanno piazza pulita di ogni forma di pietismo verso quella che è, a tutti gli effetti, una competizione sportiva. Un messaggio recepito dalle migliaia di persone che si sono affrettate ad acquistare i due milioni e 200mila biglietti (su un totale di 2 milioni e mezzo) già venduti prima dell’inizio dell’evento, che vedrà coinvolti circa 5mila atleti da tutto il mondo.

La nascita delle paralimpiadi è legata agli studi sull’effetto terapeutico dello sport sull’animo (e quindi anche sul fisico) umano. Merito di un medico tedesco fuggito dalla Germania nazista: «Il sanatorio in cui lavorava si affacciava su un campo sportivo -si legge su CheFuturo!-. Dato che la diagnosi per i reduci che tornavano dal fronte era sempre impietosa, lui si concentrò sulla prognosi, fino a capire che proprio lo sport -non importa se praticato prima della guerra o meno- poteva essere una forma di guarigione. Il recupero dell’autostima, il piacere e il bisogno di sentirsi ancora attivo. Le Paralimpiadi vere e proprie partirono, dopo quella prima edizione in sordina, nel 1960 a Roma».

Nei giorni scorsi, il presidente del Comitato paralimpico internazionale ha fatto una precisazione in merito al lessico utilizzato nel commento giornalistico dei giochi, proponendo di eliminare la parola “disabile” dalle cronache: «Questo è sport, non disabilità. Io provengo dallo sport», dice Craven, che ha infatti rappresentato il Regno Unito nella pallacanestro in carrozzina tra il 1972 e il 1988. «Non va rimpiazzata come parola, basta usare la terminologia che si usa nello sport. Nessuno vorrebbe essere definito come qualcosa che non funziona bene». Una proposta giusta e pertinente (un po’ come quella di tanto tempo fa, ai tempi della guerra nei Balcani, quando dal gergo giornalistico sportivo si provarono a eliminare tutte quelle parole che rimandavano alla dimensione bellica: cannonata, missile, assedio, bomba, cecchino, corazzata, onore delle armi).

Come fa notare Claudio Arrigoni, «Riguardo le categorie deboli il linguaggio diventa sostanza. Sempre». Non è un modo di nascondere la realtà, come sostiene il presidente del Cip (Comitato italiano paralimpico) Luca Pancalli. È un modo di svelarla, perché qui, semplicemente, si parla di sport. È chiaro a tutti che gli atleti in gara siano persone con un qualche tipo di disabilità, ma ciò che essi portano in campo, in pista o in pedana è lo stesso spirito agonistico che spinge oltre ogni limite persone come Usain Bolt, Michael Johnson, Michael Phelps, o Ye Shiwen. Gli atleti paralimpici non si sono sottoposti ad allenamenti meno pesanti, non hanno dovuto superare qualificazioni più agevoli, e non richiederà loro meno sforzo concentrare le energie per cercare di fare un risultato migliore degli avversari. Anzi, ne servirà di più. Ecco perché “superhumans”. Ecco perché sarà ancora più entusiasmante fare il tifo per i 104 italiani in gara.