Finalmente è arrivata la legge che abolisce i vitalizi per gli ex-senatori. Finisce così una sperequazione abnorme nel nostro sistema pensionistico. O quasi. La norma infatti si applica solo a partire dalla prossima legislatura, e riguarda esclusivamente i neo-eletti. Risultato: chi siede attualmente in Senato non ha nulla da temere, la sua pensione non si tocca, neanche se questi avrà l’ardire di ricandidarsi alle prossime elezioni, e la fortuna di ottenere nuovamente un seggio.

Il perché della decisione da parte del legislatore ci pare evidente, inutile offendere il lettore spiegando una cosa tanto banale. La motivazione trovata per giustificare lo spostamento in avanti dei termini è invece interessante: «Giuridicamente non eravamo competenti», ha dichiarato a Repubblica Benedetto Adragna, questore a Palazzo Madama eletto nel Pd, «si sarebbero intaccati diritti acquisiti. Comunque abbiamo dato un segnale, abbiamo avviato una serie di tagli che continueranno nei prossimi anni. Cerchiamo di essere in sintonia con il nuovo corso di sacrifici che dovrà affrontare il Paese».

Va bene, il segnale c’è, ma davvero non si poteva fare di più? Più che di diritti, qui, ci pare si tratti di privilegi acquisiti, dato che il vitalizio arriva (arrivava) dopo soli cinque anni di attività parlamentare. E i privilegi la Costituzione non li tutela. Perché se vogliamo chiamarli diritti, allora qualcuno ci deve spiegare com’è possibile che invece si tocchino, ogni volta che si intravede il fondo del barile, quelli dei comuni cittadini. L’uguaglianza davanti alla legge, questo sì, è un principio tutelato dalla Carta, che spesso viene violato nei fatti.

Lo spiega molto bene Sergio Rizzo in un suo articolo uscito a ridosso della votazione: «In Italia milioni di persone hanno cominciato a lavorare con regole per la pensione completamente diverse, e poi se le sono viste cambiare radicalmente sotto il naso. Fino al 1992 le insegnanti si ritiravano con appena 14 anni, sei mesi e un giorno di contribuiti. Indipendentemente dall’età. Dopo di allora le stesse insegnanti assunte con quelle regole hanno dovuto attendere altri vent’anni. E sempre loro, presto, non potranno pensionarsi prima di aver compiuto 65 anni. Poi 66, 67, 68… […] Per chi invece già percepisce il vitalizio, è proprio impossibile pensare di sospenderlo, nel caso in cui il beneficiario abbia un altro reddito e non ancora i requisiti di vecchiaia (ce ne sono più di quanti si possa immaginare…)? Qualcuno ricorda quando dalla sera alla mattina venne introdotto il divieto di cumulo per i pensionati? Vogliamo proprio vedere la faccia di chi avrà coraggio di fare ricorso…».

La faccenda del cumulo è infatti un altro capitolo odioso nella storia della pubblica amministrazione italiana. E non riguarda solo le pensioni, ma anche e soprattutto gli stipendi derivanti da doppi o tripli incarichi. Il nome di Filippo Patroni Griffi, nominato il 28 novembre ministro della Funzione pubblica, ha fatto tornare a galla il video in cui Report, un anno fa, intervistava il magistrato fuori ruolo, che ammetteva di ricevere circa 200mila euro l’anno dal Consiglio di Stato e circa 150mila come membro della Commissione per la valutazione e trasparenza della Pubblica Amministrazione. Ricordiamo che il magistrato, nel periodo in cui è “prestato” a un altro incarico, passa le consegne abituali ad altri e non se ne occupa più, continuando a ricevere uno stipendio per un lavoro che non svolge (e aumentando la mole di lavoro di lavoro di magistrati che si accontentano di un solo incarico). Considerate che in Italia, allora, la redazione di Report contava circa 210 magistrati fuori ruolo. Sommateli tutti e dal risparmio dei loro doppi stipendi otterrete una “manovrina” da 42 milioni di euro.