
Alla fine, dopo oltre un anno in cui ci ha abituato al suo voler mantenere le distanze da certi metodi dei suoi predecessori, anche Matteo Renzi è caduto nella trappola: è arrivato l’annuncio di tagli massicci delle tasse, compresa quella sulla prima casa. Come ricostruisce il Sole 24 Ore, il presidente del Consiglio il 18 luglio ha affermato che «Nel 2016 “elimineremo noi la tassa sulla prima casa, l’Imu agricola e la tassa sugli imbullonati”, nel 2017 “ci sarà un intervento Ires e Irap” e nel 2018 “interventi su scaglioni Irpef e pensioni”: un “impegno di riduzione delle tasse senza paragoni nella storia repubblicana del Paese”». Un taglio di 45 miliardi in tre anni, di cui 5 nel 2016, 20 nel 2017 e altrettanti nel 2018.
La tassa sulla prima casa è il tema che colpisce di più, visto che ricordiamo tutti come si arrivò alla cancellazione dell’Ici nel 2012, poi sostituita dall’Imu e successivamente dalla Tasi. Una tassazione in continuo cambiamento su un argomento che stuzzica da sempre l’opinione pubblica, visto l’altissimo numero di italiani che vivono in case di proprietà. L’idea di tagliare quella sulla prima casa, di per sé, ha un senso soprattutto se compensata da un aggravio delle imposte sulle seconde e terze case, in modo da colpire progressivamente chi possiede un patrimonio più alto. A un livello di analisi più profondo, sarebbe però opportuno dire che non è solo la Tasi a dover essere riformata, visto che il sistema di tassazione legato agli immobili è molto complesso e necessiterebbe di una riforma seria. Il fatto di fare subito riferimento alla tassa sulla prima casa suona come un ammiccamento a quel ceto medio, sempre meno medio e sempre più povero, che ancora Renzi non riesce a conquistare. Secondo Massimo Bordignon, «L’assurdo è partire avendo già deciso che il problema principale è rappresentato dall’imposizione sulla prima casa, e non dalle miriadi di altre nefandezze che l’attuale tassazione immobiliare comporta, compreso l’eccesso di prelievo sui trasferimenti di proprietà e sulle imprese. Un’imposizione sulla prima casa ben congegnata, come del resto era l’Imu prima versione, può ben comportare una sostanziale esenzione dalla tassazione dei nuclei familiari più poveri. Ma perché si debbano esentare a priori anche le famiglie medio-ricche, probabilmente tassandole da qualche altra parte in modo più distorsivo, non è chiaro».
Altri autori, Paolo Surico e Riccardo Trezzi, osservano invece che, se ben congegnata, la manovra potrebbe avere effetti espansivi: «Abolire l’imposta sulla prima abitazione – o forse ancora meglio, permettere alle famiglie con mutuo e una sola proprietà di dedurre dalla base imponibile il valore residuo del mutuo – può generare effetti espansivi significativi nel breve periodo. La ragione è che le famiglie con un mutuo sulla loro unica proprietà hanno generalmente una propensione marginale al consumo alta. Inoltre, se la copertura per questa manovra fosse interamente finanziata da un incremento del gettito relativo all’imposta sulle seconde case, potrebbe non esservi alcun effetto recessivo. Perché le famiglie senza mutuo e con più di una abitazione di proprietà tendono ad avere una propensione marginale al consumo bassa, in quanto generalmente in possesso di sufficiente liquidità e risparmi per far fronte alla maggiore imposizione fiscale».
Al di là delle opinioni, ciò che preoccupa è sempre e solo un punto: la copertura. Trovare 5 miliardi entro il 2016 non è forse un’impresa alla portata di questo governo, o del Paese in generale. Certo, se si andassero a colpire gli sprechi nel pubblico forse questi soldi – anzi, molti di più – salterebbero fuori. Secondo Confcommercio, infatti, 23 miliardi di euro di spesa pubblica locale in eccesso potrebbero rientrare con investimenti in efficienza. «La stima – scrive il Corriere – si basa sul calcolo ipotetico di quanto costerebbero i servizi pubblici locali su scala nazionale ai prezzi della Lombardia, la regione di riferimento per efficienza. A fronte di uscite complessive per 176,4 miliardi nel 2012, l’eccesso di spesa è quantificato in 74,1 miliardi. Di questi, però, 52,2 miliardi andrebbero reinvestiti per raggiungere, in tutte le regioni italiane, il livello di servizio della Lombardia ai costi sostenuti dalla Lombardia. Si arriva così a 22,9 miliardi di tagli, che andrebbero ripartiti in misura quasi analoga tra regioni a statuto ordinario e speciale». Soldi che farebbero molto comodo anche per evitare le “clausole di salvaguardia” contenute nella legge di Stabilità, che prevedono, in caso di eccessivo deficit, misure automatiche quali l’aumento dell’Iva e delle accise sui carburanti. Insomma, la promessa è azzardata. Diciamo che, più di così, il premier poteva promettere giusto l’arrivo improvviso del fresco su tutta la Penisola, più le isole.