Dopo quanto accaduto nella notte tra il 23 e il 24 agosto nell’Italia centrale è difficile pensare a qualcosa che non sia il terremoto. Per evitare di aggiungere confusione (o distrazione) alla caoticità di queste ore, in cui è ancora difficile stabilire l’entità dei danni e il numero delle vittime, ci limitiamo a proporre un articolo dedicato all’Appennino, uscito proprio ieri sul blog Doppiozero.com. Un ritratto vagamente malinconico, col quale manifestiamo la nostra vicinanza alle vittime del sisma.
Gli Appennini come una spina dorsale nel nostro paese: mi veniva in mente quest’immagine mentre leggevo il bell’articolo Congedo dal paese e dalla vita di Franco Arminio, qui su queste pagine.
La spina dorsale d’Italia e di una larga parte del Mediterraneo secondo la lezione di Fernand Braudel. Dai contrafforti dell’Appennino Ligure al massiccio dell’Aspromonte a dividere l’Italia in due, una tirrenica, l’altra padana e adriatica. Ma una spina dorsale negli anni cinquanta e sessanta spolpata della sua carne. In circa quindici-vent’anni una generazione che lascia i paesi giù a popolare le città trionfanti sulla montagna improvvisamente vuota di genti, di voci, di greggi.
Giusto così, quella montagna era ferma agli anni della società preindustriale… lo strappo tardivo del boom economico è stato per questo drammatico e lacerante, ricongiungimento con una modernità che nel nostro paese aveva troppo tardato.
La montagna spopolata e le genti a rotta di collo verso lavori e impieghi sotto padrone che garantivano tre, quattro volte il reddito “da uomini liberi” da sempre strappato a terre in salita. Come resistere?
Sarebbe stata una mutazione economica, ecologica, antropologica e umana sulla montagna alla fine ridotta a una lisca e una mutazione di segno contraria nell’Italia delle grandi città – Roma e quelle del centro e del nord – che avrebbero raccolto Calabresi, Lucani, Irpini, Abruzzesi, Marchigiani, Tosco Emiliani…
È stata la generazione dei padri che ha guadagnato il pane altrove per poi dopo vent’anni tornare al paese a costruire, a ristrutturare le mura familiari, secolari, di pietra, dopo intonacate a calce e cemento, spesso tinteggiate.
Coprire la pietra comunque… era il distacco e insieme il riscatto simbolico da tutto quello che era stata povertà.
Il mio primo ricordo del paese è in bianco e nero, marrone, grigio, come i tetti di arenaria, le pietre e gli escrementi degli animali dappertutto sulla strada. Io che scendo dalla Genova – la corriera settimanale – in pantaloni corti e scarpine bianche della domenica – e non so dove posare i piedi nel tragitto verso la casa dei nonni.
Da allora tre mesi tutte le estati, che hanno segnato l’infanzia e gli affetti con i primi anni a marcare nei sensi l’inaspettata esperienza della società preindustriale un attimo prima che la modernità la cancellasse anche lassù: un regalo e quasi una doppia vita.
Anni dopo, la mia generazione avrebbe tirato giù quegli stessi intonaci e riscoperto tutti i sassi e le arenarie. La pietra nuda non avrebbe più dato angoscia ma era diventata “bellezza”.
Anche le Alpi raccontano la stessa storia e la stessa mutazione. Ma lì l’effetto è stato forse meno forte sul piano antropologico. La pianura padana e le grandi città del nord a contenere l’esodo in un raggio più limitato e un’idea di “piccola patria” che in qualche modo manteneva una sua identità di luoghi e nelle lingue. Che il mito artificiale della Padania abbia avuto origine anche in questa diversa desertificazione della montagna?
Comunque sia, c’è stata la montagna svuotata di genti, di greggi, di voci, con una rapidità da togliere il fiato. Questa è l’irreversibilità con cui tutto ciò era avvenuto, erano le novità. Perché la montagna da secoli svuotava i suoi paesi respingendo le genti verso il basso, verso mestieri nomadi, erranti e verso e attraverso una vita ciclica; il pane nei lunghi mesi invernali andava sempre cercato altrove.
Casêi era il nome con cui in paese veniva chiamato chi restava d’inverno e non scendeva con il bestiame in Toscana o in Pianura lungo gli itinerari transumanti. Era un appellativo impastato di una punta di commiserazione; i casêi, privi di bestiame arrivavano alla primavera con le risorse dell’agricoltura ridotte al lumicino, sedentari per scelta o loro malgrado.
Dopo, negli anni della modernità, chi era restato paradossalmente aveva avuto il benessere dalla sua parte. Artigianato e piccole imprese edili, turismo invernale, impieghi comunali. Mestieri sedentari dove il denaro, spesso proveniva soprattutto da chi se ne era andato.
Anche per questo mi sono sempre suonate estranee le parole estive che venivano pronunciate da chi era restato e che recriminava ancor contro chi aveva “lasciato”.
Ma erano parole che già toccavano la generazione dei figli cresciuta nel benessere e nella nostalgia dei luoghi. Nutella, mito dei luoghi, loro nostalgia, è stata la dieta di quella parte della mia generazione, almeno di quel brandello d’Italia strappato alle montagne dalla storia e dai padri.
Ora nel paese sono e siamo tutti casêi, una mutazione antropologica anch’essa, per quanto limitata. La città ha vinto nelle teste delle persone.
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Fonte foto: flickr