Il reality “The Mission”, che dovrebbe andare in onda in autunno sulla Rai, ha aperto un’ampia riflessione nel mondo del non profit in merito all’opportunità di adottare o meno logiche comunicative tipiche della televisione (sensazionalismo, semplificazione estrema del messaggio, enfasi sugli aspetti emotivi e sui protagonisti) nel mondo della cooperazione internazionale. Il programma dovrebbe occuparsi di mostrare come si svolge la vita all’interno di un campo profughi, calando in quella realtà alcuni “vip” dello spettacolo ripresi da una regia televisiva. Obiettivo: sensibilizzare l’opinione pubblica verso i temi della solidarietà internazionale. C’è chi ha condannato apertamente il progetto, chi invece biasima gli “apocalittici” sottolineando le opportunità che un’occasione del genere può rappresentare per un’area tematica che difficilmente e solo in caso di eventi eccezionali riesce a conquistare la prima serata.

Tra le diverse valutazioni che si possono fare, ci sembrano maggiori i rischi delle opportunità, almeno sulla base di ciò che si sa. Carlo Mazzini fa notare sul suo blog che il termine reality definisce questo genere televisivo non in quanto esso mostra una realtà, bensì perché la costruisce, o quanto meno la modifica, per piegarla ai dettami delle logiche dello spettacolo. «Per fare in modo che i telespettatori seguano il reality -spiega Mazzini-, la realtà viene estremizzata, o resa ridicola, comunque alterata. In più, se i curatori del programma vedono che un personaggio tira più degli altri, faranno in modo di piegare la realtà in modo che da quel personaggio vengano le reazioni che tutti si aspettano (di norma sguaiate, trash ecc)». Una critica che ha delle basi, a nostro avviso, perché da che esiste la televisione ci sembra che la logica dello spettacolo descritta da Guy Debord abbia sempre prevalso su qualsiasi altra: «Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso» (La società dello spettacolo, 1967). Quindi, nonostante le buone intenzioni di chi promuove il programma (che sarà realizzato con la collaborazione dell’agenzia Unhcr e della ong InterSos), alla fine la spettacolarizzazione appiattirà tutto secondo le proprie necessità.

Interessante e costruttiva la critica di Giulio Sensi, che fa una serie di proposte per modificare le modalità produttive del programma in modo da renderlo maggiormente intriso di realtà. Innanzitutto cambiare i protagonisti (scardinando così però il fulcro centrale che darebbe appeal al programma), che «invece che vip capricciosi o volenterosi, potrebbero essere i cooperanti, meglio ancora se fossero gli operatori delle realtà locali che fronteggiano situazioni di crisi. Allo stesso tempo i “beneficiari” dovrebbero essere pure loro protagonisti, in un’ottica di cooperazione che non vede il destinatario dell’intervento esclusivamente come oggetto di una buona azione, ma principalmente come soggetto protagonista della propria liberazione». Questo vuol dire però dare un punto di vista complesso al tema della cooperazione, e come dicevamo in apertura tra le caratteristiche della tivù c’è la necessità di semplificare il messaggio al fine di renderlo fruibile a un pubblico vasto (soprattutto se parliamo di prima serata). Quindi è una proposta non percorribile.

«Le realtà del Sud del mondo sono poi piene di aspiranti professionisti del video, giovani che hanno una telecamera e sanno fare molte belle cose: la Rai potrebbe cercare di coinvolgere persone del luogo nelle riprese, risparmiando e creando lavoro in situazioni che lo necessitano». Altra ottima idea, che però, assieme alla precedente, andrebbe ad allargare il tema del programma: “vi facciamo vedere la realtà dei campi profughi dal punto di vista privilegiato di chi ci vive e lavora, e in più la produzione è realizzata in collaborazione con professionisti e giovani aspiranti videomaker locali”. Troppa roba per il piccolo schermo.

Per concludere, aggiungiamo una nostra piccola considerazione. Ha senso dare in pasto al pubblico un modo di fare cooperazione come fosse il modo di fare cooperazione? Sono diverse le accezioni di cooperazione e aiuto umanitario interpretate dalle diverse ong, agenzie internazionali e missioni. Chi propone aiuti “a pioggia”, chi spinge per interventi “capacitivi” che rendano indipendenti le comunità locali. La televisione, anche quando prova ad articolare, generalmente riesce soprattutto ad appiattire il dibattito. Siamo sicuri che non si avrà l’effetto collaterale di amplificare i problemi anziché contribuire a superarli?