Oggi è la giornata internazionale a sostegno delle vittime della tortura. Una pratica ancora diffusa in 101 Paesi, sostiene Amnesty International. Il principale movente di queste azioni è la partecipazione dei cittadini a manifestazioni antigovernative. «In alcuni Paesi dell’Africa subsahariana -si legge sul blog Le persone e la dignità– le forze di sicurezza hanno usato armi letali contro i dimostranti. In Medio Oriente e Africa del Nord manifestanti e dissidenti hanno subito violenza e repressione senza che i responsabili fossero puniti. In Egitto, Libia e Tunisia, nonostante le rivoluzioni, sono proseguite le violazioni che avevano luogo sotto i precedenti regimi, come la tortura, l’uso eccessivo della forza e la restrizione della libertà di parola». Interessante che, in questi casi, si continui a chiamarle forze di “sicurezza”.
“I wanted to die”, volevo morire, è il titolo di un documento pubblicato dall’associazione nei mesi scorsi, a proposito a quanto accaduto in Siria dopo le dimostrazioni pacifiche di protesta scattate a febbraio del 2011. «Volevo morire» è la risposta data da Tareq, arrestato in questo contesto, quando Amnesty gli ha chiesto perché non informava le guardie sulle cure e medicazioni di cui aveva bisogno durante il periodo di detenzione. La pubblicazione è un catalogo raccapricciante di quanto accaduto tra le mura delle prigioni siriane nei mesi successivi.
«Un rifugiato su quattro, di quelli che arrivano in Italia, è stato vittima di tortura». Dovremmo pensarci bene quando, con troppa leggerezza, leggiamo notizie sui respingimenti di immigrati giunti sulle nostre coste. Spesso, nonostante le rassicurazioni dei governanti dei Paesi d’origine, li stiamo rimandando tra le braccia dei loro aguzzini.
Ed è con questa consapevolezza che oggi ci uniamo alle tante associazioni che chiedono l’introduzione nel codice penale italiano del reato di tortura. Una lacuna che si è resa evidente quando, nel 1988, l’Italia ha ratificato la Convenzione Onu stipulata quattro anni prima, salvo poi non attuarla nel proprio ordinamento. Purtroppo non sono mancati i casi in cui non è stato possibile perseguire le forze dell’ordine a fronte di comprovate pratiche di tortura. In mancanza di una legge specifica, le accuse sono derubricate a tanti reati più piccoli, quindi con termini di prescrizione brevi, e così è facile arrivare al proscioglimento.
Nella primavera del 2000 furono 82 gli arresti per le brutali sevizie inflitte ai detenuti che nel carcere di Sassari protestavano per la mancanza di cibo. E poi i fatti dell’anno successivo, prima a Napoli durante il Global Forum e dopo, nel luglio 2001, a Genova con la caserma Diaz e i successivi episodi di Bolzaneto. E non sono i casi più recenti. Sembra che la svolta sia vicina, visto che il disegno di legge è allo studio della Commissione giustizia del Senato, assieme a un altro Ddl per ratificare il protocollo “Opcat”, che prevede un meccanismo di monitoraggio interno e di prevenzione per i reati di tortura, attraverso la creazione di un Garante dei diritti dei detenuti.
«La prossima settimana in Commissione giustizia si fisserà il termine per gli emendamenti -ha dichiarato il senatore Pietro Marcenaro, presidente della Commissione diritti umani-. Da quel momento, entro quindici giorni il testo dovrebbe essere licenziato dalla Commissione». Staremo a vedere se, dall’anno prossimo, potremo onorare questa giornata sapendo che la tortura viene riconosciuta per quello che è anche dal nostro ordinamento.