di Francesca Sassano

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1. Riforma psichiatrica e codice civile: il nostro punto di partenza.

L’autonomia individuale è un concetto tra i più basilari della vita degli esseri umani. La convivenza sociale, le relazioni personali e la realizzazione di sé stessi presuppongono la capacità di intendere e di volere. Ma non si tratta di un semplice tratto biologico. La cultura e le convenzioni sociali svolgono un ruolo essenziale. L’autonomia richiede che si sappia motivare ragionevolmente la propria condotta. Ma che cos’è una ragione? Un ideale religioso può lodare l’immolazione di sé, mentre in altri contesti verrebbe giudicato un comportamento psicotico. Sono gli orizzonti di senso, e cioè l’insieme di significati che diamo alle cose, ad aiutarci a descrivere le azioni e a permetterci di discriminare i comportamenti, come dettati dalla ragione o dalla follia. La percezione di questa pluralità non può non renderci cauti nel dare per scontata la nostra concezione di ciò che è ragionevole e di ciò che non lo è.

Tradizionalmente, il suicidio è stato concepito come un gesto folle. Ma, se pure tra molte esitazioni, il sentire comune é ora sempre più vicino all’idea che vi siano molte situazioni in cui la richiesta di essere lasciati morire sia ragionevole e che solo un giudizio crudele e privo di compassione non vi acconsentirebbe. Nel momento in cui viene affermato il valore della pluralità degli stili di vita e delle concezioni del mondo, come porre la distinzione tra autonomia e incapacità di intendere e di volere? La scienza psichiatrica può farlo? O non si arroga un compito che appartiene alla più ampia riflessione morale dell’individuo.

Per capacità di intendere si ritiene la normale capacità di valutazione dei propri atti. Con la capacità di volere si identifica la determinazione libera e volontaria del proprio comportamento. I due requisiti definiscono la “responsabilità giuridica di un soggetto”. La legge, e specificamente l’articolo 85 del codice penale, considera imputabile chi, al momento di commettere il fatto previsto come reato, aveva la capacità d’intendere e di volere. La valutazione del reato deve attenersi al previo accertamento di questi due requisiti. In questi casi il perito é lo psichiatra. Si assume che lo psichiatra sia in grado di pronunciarsi sia sulla infermità, ovvero sulla natura di questa infermità, sia sulla capacità giuridica del soggetto. In realtà queste valutazioni possiedono un margine di approssimazione molto elevato. La legge italiana (L. 833/78) sancisce la norma che i trattamenti psichiatrici sono volontari. Ciò significa che tali trattamenti vanno richiesti e accettati da chi li subisce. Non solo.

Occorre anche che la persona sia informata del tipo di terapia, della natura e degli effetti che essa produce. Chiunque sia stato (o sia) in cura presso i servizi psichiatrici sa quanto ciò sia lontano dalla realtà delle pratiche psichiatriche. Esiste una sola possibilità in Italia per essere sottoposti contro la nostra volontà a trattamenti psichiatrici: il Trattamento Sanitario Obbligatorio (T.S.O.). Non può essere disposto alcun ricovero, senza consenso, presso altre strutture pubbliche o private (reparti psichiatrici del policlinico, comunità protette, case famiglia, cliniche private…). Lo stesso vale per il ricovero in un reparto psichiatrico in mancanza di un provvedimento di T.S.O. La normativa che riguarda gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori si riferisce alla Legge 180 del 1978 (meglio conosciuta come legge Basaglia), poi inglobata nella legge di Riforma Sanitaria n. 833/78, art. 33 e seguenti. In atto, nonostante diversi tentativi falliti di modifica, gli articoli della L.833 regolano in Italia la possibilità di essere sottoposti a interventi psichiatrici coatti. E in questa situazione di difficile gestione del malato non consenziente la famiglia è una struttura insufficiente al bisogno sociale dello stesso e alle sue esigenze terapeutiche. Troppo spesso si è sostenuto che la famiglia del disabile è un punto di riferimento per il terapeuta, in realtà è l’unico presidio di accoglienza per lo stesso. E una società che vanta secoli di diritto sociale , non può non riconoscere l’insufficienza e la gravità del vuoto legislativo sul punto.

2. L’amministrazione di sostegno: brevi cenni

Il 22 dicembre 2003, il Senato approvò definitivamente, all’unanimità e in seduta notturna, la legge che istituisce l’Amministratore di sostegno, che riforma il titolo XII del I libro del Codice Civile.

«Si tratta di una riforma che è destinata a incidere profondamente sulla quotidianità dei malati psichici. Gli inconvenienti della disciplina in vigore – quella imperniata sulle figure dell’interdizione e dell’inabilitazione, vecchia ormai di due secoli – sono in effetti molteplici: costosità del processo, eccesso di pubblicità (le sentenze vengono annotate nel registro di stato civile), difficoltà per l’interessato di difendersi. Soprattutto pesantezza delle conseguenze tecniche: all’interdetto viene impedito di fare ogni cosa; non può sposarsi, né fare testamento, né regalare un oggetto a un amico, né riconoscere un proprio figlio naturale, né ottenere un impiego pubblico. Qualunque contratto da lui stipulato è annullabile, anche il più modesto, solo che al tutore così piaccia. E all’inabilitato non va molto meglio.

Misure “totalizzanti” insomma, quasi sempre sproporzionate alle necessità di protezione del soggetto. Etichette odiose, che le famiglie sono le prime a temere per i propri cari. Oltre tutto misure spesso inapplicabili. E’ quanto emerge dall’art. 414 c.c.: per essere interdetti occorre versare “in condizioni di abituale infermità di mente”, e tale stato deve rendere la persona “incapace di provvedere ai propri interessi”. Ebbene, fra i disabili psichici viventi in Italia (circa 700.000) solo una piccola parte sta effettivamente così male; gli altri non sono colpiti fino a quel punto, comunque non sempre, non continuativamente. E per soccorrerli legalmente , quando arriva un momento difficile , non esiste nulla oggigiorno. Come investire una piccola liquidazione, quali clausole introdurre in un vitalizio, a chi vendere i mobili di casa, quanto farsi dare per la cessione delle quote in un’azienda, a quale appaltatore affidare un restauro, a quanto affittare quel magazzino, come attuare una divisione ereditaria? Il disabile psichico (se non ha una famiglia, o se questa non lo ama) resta abbandonato a se stesso: facile preda per chiunque». ( P. Cendon, “Un nuovo diritto per i malati di mente (e non solo)” p.1)

Questa legge, lungamente attesa dalle famiglie e dagli operatori del settore, ha avuto un iter legislativo lungo e complesso in quanto ha coinvolto la riforma di alcuni articoli del Codice Civile che riguardavano l’interdizione e l’inabilitazione. Essa dovrebbe rispondere all’esigenza di difendere gli interessi di quelle persone che si trovano nell’ incapacità, anche parziale o temporanea, di provvedere a sé stessi e ai propri beni, senza però annullarne i diritti e la dignità, come avviene nell’interdizione e, in minor misura, nell’inabilitazione.

La figura dell’amministratore di sostegno viene così ad affiancare e non a sostituire, quelle del tutore e del curatore. Interessa varie categorie di persone, dai disabili mentali, fisici e psichici, agli anziani confusi e/o non più in grado di provvedere pienamente a sé e ai propri interessi. È significativo il cambiamento della rubrica del Titolo XII del Codice Civile, che prima recitava “Dell’infermità di mente dell’interdizione e dell’inabilitazione”. Adesso la nuova rubrica si intitola “Delle misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia”. Ciò dà il segno di quanto sia mutata l’immagine sociale e quindi giuridica delle persone disabili.

«Ecco perciò l’amministrazione di sostegno. Il giudice tutelare – mettiamo – viene avvertito (dagli operatori, dai vicini di casa, dal p.m.) che una persona si trova in difficoltà: entra in azione allora, s’informa tramite gli assistenti sociali, dispone eventualmente una perizia, se occorre va a parlare con la persona, consulta chi le sta intorno. Alla fine emetterà un decreto – anticipandone magari una parte, in via d’urgenza – in cui provvede a nominare qualcuno (tratto dalla famiglia, dal volontariato, dagli amici) amministratore di sostegno: indicando quali operazioni costui potranno essere compiute “in nome e per conto” dell’interessato, precisando date d’inizio e fine dell’incarico». ( P. Cendon, “Un nuovo diritto per i malati di mente (e non solo)” p.1)

Uno dei punti salienti del nuovo testo di legge è la non obbligatorietà dell’interdizione. Infatti le persone interdette o inabilitate possono richiedere, anche attraverso il tutore o il curatore, un amministratore di sostegno. In questo caso l’interdizione o l’inabilitazione vengono a decadere con la nomina di un amministratore di sostegno da parte del giudice tutelare. Mentre per l’interdizione e l’inabilitazione decide il tribunale,la nomina dell’amministratore di sostegno viene fatta direttamente dal giudice tutelare del luogo in cui la persona ha la residenza o il domicilio. Ha diritto ad essere assistita da un amministratore di sostegno la persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi. I responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona, nel caso in cui sono a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna la richiesta di un amministratore di sostegno, sono tenuti a informarne il giudice tutelare. Questa formulazione lascia spazio anche ad altre possibilità, nel caso in cui il nucleo familiare o altri siano in grado di difendere effettivamente gli interessi della persona disabile a giudizio degli operatori dei servizi pubblici e del giudice tutelare.

Per quanto sia possibile, deve essere rispettata la volontà della persona a cui è affiancato l’amministratore di sostegno (essa è definita nel testo di legge “beneficiario”), tanto che l’amministratore di sostegno deve agire sempre d’accordo con il beneficiario e deve sempre tener conto dalla sua volontà. Anche il giudice tutelare (che ha il compito di controllare che tutto avvenga regolarmente) deve tenere sempre conto della volontà e dei bisogni del beneficiario Rispetto alla scelta dell’amministratore di sostegno, il giudice tutelare deve tener conto della volontà espressa dal genitore nel testamento, oltre che di quelle del coniuge o dei parenti entro il quarto grado e del beneficiario stesso. L’amministratore di sostegno può essere indicato dallo stesso interessato, se questi prevede una propria eventuale futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata e autenticata. Non possono essere nominati amministratori di sostegno gli operatori dei servizi pubblici (cioè degli enti locali e delle ASL) o privati (cioè di fondazioni e associazioni) che hanno in cura il beneficiario.
La ratio di ciò è una maggiore garanzia di presenza nella vita del soggetto che necessità di tale sostegno , ma anche di cumulare con esiti infausti la funzione svolta all’interno di una struttura pubblica con un ufficio a carattere personale.

Solo i legali rappresentanti (cioè i presidenti) di fondazioni o associazioni private (anche associazioni di volontariato prive di personalità giuridica) possono essere designati amministratori. Questi hanno a loro volta la possibilità di delegare ad altra persona tale compito. L’istituto della delega dovrà essere usato con parsimonia e forse tale facoltà non può essere delimitata dall’ordinario istituto della delega, si impone una valutazione attenta affinché i limiti della stessa siano determinati in senso soggettivo ed oggettivo. L’amministratore di sostegno non riceve alcun stipendio o retribuzione e resta in carica 10 anni. Questa circostanza renderà sicuramente l’istituto oggetto di perplessità e di remore, d’altra parte ipotizzare una stipendializzazione dell’amministratore di sostegno avrebbe avuto peggiori conseguenze. Il rischio che si corre è di una applicazione “ indifferente “ dell’istituto e di uno scarso incentivo alla trasformazione delle interdizioni in amministrazioni di sostegno. Se l’amministratore è un parente, il coniuge o la persona stabilmente convivente non ci sono limiti temporali.

È da mettere in evidenza l’importanza data alla “persona stabilmente convivente”, non necessariamente un parente, la quale può essere coinvolta in tutti gli atti giuridici che riguardano il beneficiario, potendo essere nominata anche amministratore di sostegno. E questa norma introduce nel diritto e dà dignità effettiva alle convivenze di fatto ma anche ai semplici rapporti di affettività, tutt’oggi esistenti , ma spesso annullati dalla logica di un sistema basato sulla parentalità e sulla consanguineità. L’amministrazione di sostegno interviene come rappresentante in alcuni atti giuridici, tipo l’acquisto di un bene immobile, la promozione di un procedimento giudiziario, etc. e si affianca al beneficiario in atti giuridici, detti di ordinaria amministrazione, quali contratti di affitto, acquisto di beni mobili di un certo valore, etc. Questa sua azione non annulla le capacità del beneficiario di compiere da solo tutti gli atti “necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana”( per esempio acquistare beni di uso personale, come cibo e vestiti, riscuotere la pensione di invalidità ,etc.).

L’amministrazione di sostegno è quindi una forma di protezione più rispettosa della dignità del disabile rispetto all’interdizione che privava il soggetto della sua capacità. È il giudice tutelare a decidere e ad indicare nel decreto di nomina dell’amministratore di sostegno quali sono gli atti che questi ha il potere di compiere al posto del beneficiario e quelli in cui deve essere presente insieme al beneficiario. I poteri dell’amministratore di sostegno sono annotati a margine dei registri di stato civile, al fine di consentire a terzi il controllo sull’azione dell’amministratore di sostegno e non costituiscono atto di menomazione alcuna della capacità del soggetto ma si inseriscono in un clima di rispettosa informazione. Questo rende l’istituto giuridico dell’amministrazione di sostegno, allo stesso tempo, più trasparente, perché controllabile da terzi, e più elastico, potendosi adattare alle esigenze del singolo disabile. L’amministratore, in caso non sia in accordo con il beneficiario, deve subito informare il giudice tutelare chiamato a mediare. In caso di non accordo anche il pubblico ministero, i parenti entro il secondo grado, il coniuge o la persona stabilmente convivente possono rivolgersi al giudice tutelare. A difesa del patrimonio e a tutela degli interessi del beneficiario, gli atti compiuti dall’amministratore di sostegno o dal beneficiario stesso, in violazione di leggi od in violazione dei poteri dati all’amministratore dal decreto di nomina del giudice tutelare, possono essere annullati su richiesta dell’amministratore di sostegno, del pubblico ministero, del beneficiario o dei suoi eredi.

L’amministratore di sostegno, solo ed esclusivamente se è parente entro il quarto grado o coniuge o persona stabilmente convivente, può ricevere per testamento o donazione i beni del beneficiario. Questa è altra norma a tutela del soggetto debole e a garanzia della trasparenza della amministrazione stessa che non potrà in alcun modo essere finalizzata ad un proprio vantaggio. Viene salvata la possibilità del testamento fedecommissorio, secondo il quale ciascuno dei genitori o il coniuge o i parenti più stretti possono istituire erede l’interdetto con l’obbligo di conservare e restituire alla sua morte i beni a persone o enti indicati nel testamento stesso. Ad esempio il testamento può indicare espressamente che una parte dei beni possa andare a persone o associazioni di volontariato che si sono presi cura dell’interdetto stesso. Questa norma , in realtà , contrasta con il principio dell’impossibilità dell’amministratore di ricevere per testamento.

Una grande differenza si coglie sul terreno dei destinatari della protezione. L’interdizione riguarda solo gli infermi di mente, nessun altro “debole” esiste per il legislatore. Il nuovo strumento è pensato – invece – per venire incontro a chiunque si trovi in difficoltà nell’esercizio dei propri diritti. Non soltanto disturbati psichici: anche anziani della quarta età, handicappati sensoriali, alcolisti, tossicodipendenti, soggetti colpiti da ictus, malati, morenti. In certi casi extracomunitari, detenuti. Si tratta di un istituto giuridico più plasmabile, più adattabile alle esigenze del soggetto, in modo da garantire a tutti quei “beni” di cui ogni individuo ha il diritto e di cui si fa garante la nostra Costituzione. L’Amministrazione di sostegno riduce o attenua la capacità del beneficiario solo in relazione ad alcuni atti, quelli stabiliti volta a volta dal giudice: per tutto il resto il disabile conserva intatta la sua capacità e il regime è quindi compatibile sia con la disciplina dell’incapacità naturale, sia con gli istituti della rappresentanza volontaria. È invece sempre incompatibile con l’interdizione e l’inabilitazione.
Il debole non viene dunque espulso dalla “quotidianità”, dal poter vivere alla pari con gli altri soggetti.

È una battaglia che mira a costruire un approdo diverso per ogni debolezza originaria o insorta , perchè parte da un concetto di diritto che almeno per chi scrive, considera non più attuali i termini di sanzione e ancora meno l’attribuzione rigida di responsabilità. Il diritto è l’esempio più concreto di costruzione per categorie astratte e separate, la nostra realtà è la negazione più evidente di ciò. Il principio della responsabilità soffre di questa distanza che va colmata con sensibilità ed equilibrio.

 

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