In Italia, quando si parla di tracciamento dei contatti (contact tracing), si pensa principalmente all’app Immuni, ancora in fase di sviluppo e in ritardo rispetto alle attese. Ma come spesso accade la discussione mediatica e politica si è avvitata su un dettaglio collaterale, la app in questo caso, perdendo di vista il tema centrale: il tracciamento dei contatti. Nell’ultima conferenza stampa tenuta a Palazzo Chigi dal presidente del Consiglio Conte, un giornalista di RTL ha fatto una domanda puntuale su questo aspetto, chiedendo come mai si parlasse di riaperture senza porre l’attenzione su test, trattamento e tracciamento dei contatti. La risposta non è stata particolarmente soddisfacente.
Non ci salverà una app
A proposito dell’app, è interessante guardare al caso islandese, dove pare che il 40 per cento della popolazione abbia scaricato l’applicazione sviluppata dal governo, senza che questo abbia avuto un grosso impatto nel contenimento dell’epidemia. «Gestur Palmason, che si occupa di coordinare il lavoro degli addetti al tracciamento dei contatti, ha spiegato che finora Rakning C-19 si è rivelata utile in un numero limitato di casi: “Per noi non è stata una svolta”. L’applicazione ha permesso in alcuni casi di ottenere più informazioni, ma alla fine è stato il lavoro sul campo degli operatori a fare la differenza nella ricostruzione delle catene del contagio. […] Come sostenuto in più occasioni anche dai responsabili dell’Istituto Superiore di Sanità in Italia, il modo migliore per fare il tracciamento dei contatti richiede la presenza sul territorio di operatori dedicati a queste attività. Identificati gli individui positivi, occorre intervistarli sui loro incontri avvenuti nei giorni precedenti per procedere con l’isolamento degli esposti, in modo da ridurre il rischio che possano contagiare a loro volta altre persone». Certo l’Islanda è un paese particolare, e le sue caratteristiche geografiche e demografiche hanno forse aiutato a controllare la diffusione del virus. Ma il caso della Germania conferma il fatto che sia molto più importante avere un piano su come effettuare il tracciamento dei contatti “a mano”, piuttosto che porre eccessive speranze (e risorse) in un’app. Sarebbe quindi opportuno investire in nuovi operatori da dedicare a questo scopo. In base a quanto scrive Cesare Cislaghi su Welforum sembrerebbe proprio così: «Si stima che i contatti di ogni contagiato possano mediamente essere venticinque ed un operatore non riesce a mantenere controlli bi quotidiani con più di cinquanta persone. In otto ore di lavoro, cioè quattrocentottanta minuti, significa meno di dieci minuti a soggetto e quindi se devono esserci contatti bi giornalieri, cinque minuti a contatto che per attivare la telefonata, attendere la risposta, parlare con la persona, registrare quanto detto non è molto. Si consideri poi che se vengono segnalati dei sintomi a rischio si innestano procedure che richiedono molto più tempo. In conclusione ci vorrà un operatore ogni due contagiati, ed oggi i Dipartimenti di Prevenzione non dispongono di così tanti operatori e quindi devono essere ingaggiati dei nuovi collaboratori anche precari o anche volontari».
Dati personali
A guardare una delle poche misure relative al tracciamento dei contatti presenti nell’ultimo DPCM, pare che la strategia del governo sia prendersi meno responsabilità possibile. La richiesta ai gestori di bar e ristoranti di conservare i dati dei clienti per 14 giorni, oltre che violare palesemente le norme sulla gestione dei dati personali, delega ai primi una funzione di controllo che spetterebbe allo Stato. Nicola Biondo, su Linkiesta, mette a fuoco i punti deboli di questa strategia: «1) In caso di nuovi contagi si dovrebbero impiegare decine di persone e giorni di lavoro per cercare i clienti registrati a mano dal negozio fino a trovare il contagiato e ricostruire la mappa dei suoi spostamenti. Era prevista un’app, Immuni, per farlo, ma evidentemente il governo ha deciso che non funzionerà prima ancora di provarla. 2) Si impone a centinaia di migliaia di imprese commerciali la raccolta di dati personali sensibili (su carta o altri supporti) per possibili indagini di sanità pubblica che così saranno necessariamente manuali e tardive. 3) Ci sarebbe la necessità di rendere più snella la burocrazia, ma si sfornano disposizioni che appesantiscono le piccole imprese. Disposizioni che hanno una base giuridica assai zoppicante. Non solo si tratta di un obbligo a fornire i propri dati, che non prevede dunque la necessità di ottenere il consenso da parte dei cittadini, ma non è prevista un’informativa sulla privacy da far firmare al cittadino-cliente».
(Foto di Alina Grubnyak su Unsplash)