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Entro il 2015 dovrebbe arrivare a compimento l’accordo per la creazione di un’area di libero scambio tra Stati Uniti e Unione europea, ossia il Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip) (ne abbiamo parlato qui). Si tratta di un accordo che coinvolge all’incirca 820 milioni di cittadini e la cui gestione è in gran parte segreta. Chi lo promuove sottolinea ovviamente le immense possibilità di sviluppo dell’economia portate dall’abbattimento delle barriere, tariffarie e non, tra le aree geopolitiche che complessivamente generano il 45 per cento del pil mondiale. Molti però sono anche i rischi implicati da tale accordo, legati soprattutto alla deregolamentazione che esso implicherebbe. È chiaro che per i Paesi europei la cui economia è principalmente alimentata dalle esportazioni si creerebbero le condizioni per aprirsi a un nuovo mercato, con grandi potenzialità. È però altrettanto evidente che, dall’altro lato, sarebbero soprattutto le multinazionali statunitensi a godere della caduta di alcune barriere che al momento impediscono loro di spazzare via la concorrenza sul mercato europeo.

Uno studio della Commissione europea citato dall’avvocato Bruno Saetta su Valigia Blu, «precisa che il Ttip porterà crescita e occupazione. L’aumento del pil è stimato tra i 68 e 120 miliardi di euro per l’Ue e tra i 50 e i 95 miliardi per gli Usa. Se invece l’accordo fosse limitato alla sola liberalizzazione tariffaria, si avrebbe un aumento di 24 miliardi per l’UE e 10 per gli Usa». Ciò vuol dire che l’accordo è interessante soprattutto se cadono le Ntb, ossia Non-tariff barriers to trade, le barriere non tariffarie, «cioè le misure commerciali non fiscali volte al controllo delle importazioni e delle esportazioni sulla base di svariati interessi, come la sicurezza alimentare, le regole per la sicurezza sul lavoro, le norme ambientali e sanitarie, cioè tutte quelle norme che caratterizzano l’Europa rispetto agli Usa come un luogo che pone maggiore attenzione alla vivibilità e alla sicurezza e ai cittadini». Per capirci meglio, dal punto di vista alimentare si potrebbe assistere all’ingresso nel mercato europeo di cibi il cui commercio al momento è vietato nel continente, mentre sono perfettamente in regola negli Usa. Ad esempio, i prodotti ortofrutticoli ogm, la cui importazione al momento non è permessa.

Dal punto di vista della macelleria ci esponiamo al rischio di un peggioramento netto della qualità, come spiega Saetta: «Per comprendere l’impatto sulla vita di tutti i giorni della riduzione degli Ntb possiamo ricordare che negli Usa è ammessa la sterilizzazione dei polli morti in acqua di cloro, procedimento che non è considerato sicuro in Europa. Altra preoccupazione riguarda il vasto uso di ormoni nella carne bovina e suina, oppure la clonazione di animali da macello». L’Europa è caratterizzata dalla presenza di piccole aziende distribuite sul territorio dell’Unione, mentre negli Stati Uniti poche grandi imprese multinazionali si dividono il mercato. Che ne sarà di tutta la “biodiversità” delle imprese europee una volta che arriveranno i giganti statunitensi a fare man bassa?

In generale, l’Unione europea ha tradizionalmente norme molto più restrittive a proposito della qualità degli alimenti, con un monitoraggio della produzione che prevede il controllo di tutte le fasi della filiera. Questo ovviamente implica dei costi per i produttori, ma garantisce il cittadino sulla sicurezza di ciò che consuma. Al contrario, negli Stati Uniti l’attenzione è tutta posta sul prodotto finale, la cui eventuale tossicità deve essere comprovata scientificamente prima di dare luogo a un eventuale ritiro dal mercato. Due filosofie in totale contrasto, la prima più attenta ai cittadini e al rispetto di standard piuttosto selettivi, l’altra più aggressiva e votata alla libertà di azione sul mercato. Inutile dire quale delle due ha il maggior potenziale di successo sull’altra, una volta sciolti i vincoli.

Dal punto di vista del lavoro il rischio è che le multinazionali si trovino per le mani la possibilità molto più praticabile di spostare la produzione nei Paesi dove la manodopera costa meno, ossia l’Europa dell’Est. Non ci sarà quindi un aumento dell’occupazione generalizzato, bensì concentrato dove conviene di più ai produttori, con indubbio svantaggio, ancora una volta, dei piccoli produttori locali. Ci sarebbe molto altro da dire, e per questo vi rimandiamo all’articolo citato più in alto (e anche a questo). Ma anche solo quanto scritto fin qui basta per impedirci di assecondare le parole del nostro presidente del Consiglio quando annuncia l’«appoggio totale e incondizionato del governo italiano» al Ttpa. Prima di dare appoggi “incondizionati” ci piacerebbe conoscere meglio quali altre implicazioni potrebbe avere l’accordo. Non appena cadrà il vincolo della segretezza, ovviamente.