Il 5 gennaio è morto Tullio De Mauro, importante linguista italiano che si è sempre speso per divulgare l’importanza dello studio della lingua italiana. Riportiamo di seguito un brano del suo saggio su «Economia e linguaggio», pubblicato sul Corriere della sera, in cui spiega perché investire sull’istruzione è un bene per l’economia di un Paese.

Di Adam Smith conosciamo le idee sulla complementarità di vita economica e linguaggio grazie al fortunato ritrovamento, nel 1958, degli accurati appunti di un allievo frequentatore di uno dei corsi delle lezioni «on Rethoric and Belles Lettres», che Smith tenne per una decina d’anni a Edimburgo e Glasgow. Alle dottrine economiche di Smith amava richiamarsi Carlo Cattaneo, che, all’oscuro invece delle lezioni di retorica di Smith, aveva per sue strade storiche e teoriche maturato la stessa idea propugnata da Smith: una piena padronanza della lingua è un elemento indispensabile alla vita intera d’una società moderna. L’economista inglese e l’italiano appaiono concordi anche nell’indicare nell’educazione e nelle scuole il terreno dove occorre fare maturare negli allievi una piena consapevolezza dei mezzi linguistici e la capacità d’un loro uso appropriato ai fini dello sviluppo della società e delle forme produttive, in capo alle quali, spiegava Cattaneo, stanno le idee e dunque un’elevata cultura, un’elevata capacità di linguaggio.

Queste indicazioni sono state riprese e confermate da analisi recenti. Studiosi di economia anche italiani hanno mostrato l’elevata predittività che i livelli di istruzione hanno ai fini della valutazione dei possibili sviluppi economici di un’area o di intere comunità nazionali. E studiosi dei fatti educativi hanno mostrato la centralità che l’educazione linguistica ha ai fini del raggiungimento di alti livelli di istruzione individuali e collettivi. Spiriti illuminati dovrebbero trarne la conclusione che lo spostamento di risorse pubbliche e private verso l’istruzione è un buon investimento anche ai fini dello sviluppo economico di una società, oltre che al fine prioritario di dotare ogni persona degli strumenti espressivi, conoscitivi e operativi necessari a muoversi nello spazio sociale da cittadini e non da sudditi o da privilegiati.

La vicenda di molti Stati nazionali europei tra Quattrocento e Ottocento conferma la rilevanza che hanno avuto per la vita produttiva ed economica la convergenza generalizzata verso la lingua nazionale dei diversi Paesi e per tale convergenza le condizioni e sollecitazioni createsi col formarsi di grandi mercati unitari. Il caso italiano è particolarmente istruttivo.

La lingua scritta da Dante, Petrarca, Boccaccio nel Trecento venne scelta a lingua nazionale e chiamata italiana nel primo quarto del Cinquecento. La scelta non fu di soli letterati: la condivisero anche funzionari e ufficialità delle corti dei diversi Stati italiani che abbandonarono latino e parlate dialettali per redigere i loro documenti.

Ma, a parte l’area toscana e, in qualche misura, romana, dove il parlato nativo era per dir così corradicale con la lingua scritta, la scelta non andò oltre la cerchia ristretta dei letterati e delle scritture ufficiali. Restò, letteralmente, sulla carta. E per più di tre secoli le lingue «vive e vere» delle società pre-unitarie furono i dialetti locali, per popolo, aristocrazie, esili ceti professionali e borghesi. Della lingua italiana si disse a fine Settecento «si giace morta nei libri». Persone di buona istruzione e di dialetto diverso che si incontrassero, cosa rara, parlavano tra loro piuttosto francese che italiano.

Il cammino verso il possesso della lingua italiana cominciò nella seconda metà dell’Ottocento con l’unificazione politica e l’abbattimento dei confini che per secoli avevano diviso l’Italia in Stati e mercati diversi e l’avevano resa simile, osservava da economista Cesare Correnti a metà secolo, a una casa in cui le stanze comunicavano più con l’esterno che tra loro. L’unificazione politica innescò quei processi sociali ed economici che, pur rallentati dalle due guerre, hanno portato alla creazione di un ampio mercato unitario di capitali, merci e manodopera e infine al decollo industriale degli anni Cinquanta del Novecento. Dalle condizioni allora emergenti venne per gli strati popolari la spinta a cercare di realizzare l’obbligo dell’istruzione di base che, sancito nelle leggi fin dal 1859, ribadito solennemente dalla Costituzione del 1948, era restato anch’esso, come la lingua nazionale, sulla carta. Negli anni Cinquanta, secondo i dati del primo censimento post-bellico, il 60 per cento degli adulti era privo di ogni titolo di istruzione, anche della sola licenza elementare. Se si rammenta questo dato sorprende forse meno che in quegli anni soltanto una percentuale inferiore al 18 per cento della popolazione (inclusiva di toscani e romani) usasse abitualmente l’italiano anziché il proprio dialetto.

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