Ci permettiamo una piccola riflessione in merito alle preoccupazioni che diversi movimenti esprimono oggi in merito all’arretramento della democrazia in Italia. Il ragionamento si è arroccato ultimamente sulla legge elettorale, i listini bloccati, il premio maggioritario contro il principio proporzionale di pari rappresentatività di tutti i gruppi sociali. Argomenti giusti e su cui è bene continuare il confronto. Va detto però che tutti questi aspetti riguardano fatti che accadono nel nostro Paese, avvengono all’interno delle istituzioni e sono regolati da leggi dello Stato. Si può non essere d’accordo con le norme in vigore, ma la Repubblica mette a disposizione dei cittadini gli strumenti per influenzare le decisioni politiche e quindi modificare le leggi. Che poi ci siano aggiramenti di questo principio sarebbe ipocrita negarlo, ma per quanto possano protrarsi logiche di questo tipo, a un certo punto la legislatura finisce, arrivano le elezioni, e c’è la possibilità, attraverso il voto (o candidandosi), di spostare gli equilibri e spingere verso un cambiamento che (incrociando le dita) possa migliorare la realtà del Paese.

Molto più preoccupante, e meno controllabile, è lo schema di potere, non elettivo, che sta al di fuori delle istituzioni nazionali, e al quale abbiamo scelto di cedere parte della nostra sovranità, ossia l’Unione Europea. Non si tratta di un articolo “no Euro”, se è questo che vi state chiedendo. A noi l’Europa piace, ci vogliamo stare, non solo geograficamente, ma vorremmo anche contribuire a determinarne gli indirizzi. L’Unione di oggi è ben lontana da quella immaginata da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi nel Manifesto di Ventotene, che ne auspicava una riorganizzazione federale, con una moneta unica, un unico esercito e una politica estera comune: «Un’Europa libera e unita è premessa necessaria per il potenziamento della civiltà moderna, di cui l’era totalitaria rappresenta un arresto. La fine di questa era farà riprendere immediatamente in pieno il processo storico contro le disuguaglianze e i privilegi sociali. Tutte le vecchie istituzioni conservatrici, che ne impedivano l’attuazione, saranno crollanti o crollate, e questa loro crisi dovrà essere sfruttata con coraggio e decisione». Nonostante la libera circolazione dei cittadini tra gli Stati dell’Ue, resta ancora molto più un’unione dei capitali che delle persone.

Vogliamo capire dai partiti che si candidano alle elezioni del Parlamento europeo quale idea di Europa hanno intenzione di portare avanti. La stessa a cui stiamo sottostando negli ultimi anni, oppure hanno idee nuove e di rottura col passato? Propongono di continuare sulla strada del fiscal compact e del limite del 3 per cento nel rapporto deficit/pil? Soprattutto, ci ritroveremo i soliti “trombati” della politica italiana, che vanno a Strasburgo per condurre in santa pace gli ultimi anni di vita politica attiva, dove nessuno può disturbarli? Ci piacerebbe vedere persone nuove, motivate a cambiare il sistema, introducendo una maggiore rappresentatività all’interno delle istituzioni europee, perché se dobbiamo delegare loro parte della nostra sovranità, vogliamo contribuire all’elezione di tutti gli organi che prendono decisioni, in cima ai quali non brilla certo il Parlamento europeo, che com’è noto ha poteri piuttosto limitati. Altrimenti, se non possiamo contribuire proponendo persone, teniamocele a casa, ma con esse facciamoci restituire anche le competenze a cui abbiamo scelto di rinunciare. Perché farci assegnare i “compiti a casa” che i nostri ultimi presidenti del Consiglio sono così ansiosi di svolgere, se poi dobbiamo accettare che le aziende (anche italiane) trasferiscano le proprie sedi in Olanda e Irlanda per godere della minore pressione fiscale di quei Paesi? Non sono forse anch’essi in Europa? Forse sarebbe utile una politica fiscale comune tra gli Stati membri, e l’Italia in quel caso avrebbe solo da guadagnarci.