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La dichiarazione di Umberto Eco contro gli imbecilli che infestano internet ha fatto discutere, tra chi difende il semiologo e chi vede nelle sue parole lo sfogo di un “apocalittico”. Francesco Mangiapane, su Doppiozero.com, fa una riflessione sul rapporto tra lo studioso e la stupidità.

L’occasione era solenne: la quarantesima laurea honoris causa, giusto in Comunicazione e cultura dei media, parte della grande famiglia di Scienze della Comunicazione, il corso di studi che lui stesso, a suo tempo, aveva contribuito a istituire. Lo scenario, se si vuole, è ancora più emblematico: l’Università di Torino che, ben 61 anni orsono, lo aveva fatto dottore, segnando l’esordio della sua fortunata carriera. Mille volte, del resto, il nostro era intervenuto sull’argomento (si veda di recente questa recente intervista a cura di Daniela Panosetti, Apocalittico sarà lei) ora paragonando gli utenti di Internet all’antieroe borgesiano Funes el memorioso, ora facendosi alfiere dello studio a memoria contro l’eterno presente a cui Internet sembrerebbe condannare i suoi utenti a maggior ragione se giovani studenti nativi digitali.

«I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli».

Questa frase pronunciata durante la conferenza stampa a margine della cerimonia viene ripresa da tutti i giornali, scatenando un putiferio. E tutto va secondo il copione imbastito ormai ben 50 anni fa. Apocalittici e Integrati si dividono e cominciano a occuparsi, proprio sui social network, della questione, ora dandogli ragione (“è vero che Internet e suoi utenti sono imbecilli: la pagina facebook di Dipré sta a dimostrarlo”) ora protestando rabbiosamente. Da più parti, si leva, contro Eco, l’accusa (paradossale?) di assumere il medesimo atteggiamento elitario ed apocalittico degli intellettuali da lui allora criticati, che, negli anni 60 rifiutavano di prendere in considerazione la cultura di massa. E si capisce che essendo l’accusa così generale e le piattaforme di discussione così praticate, ognuno si sia sentito chiamato in causa da questo insulto, intervenendo con il proprio contributo. Qualche ora dopo, sui giornali online grandi e piccoli, sono arrivati gli opinionisti, divisi anche loro, manco a dirlo, fra sostenitori delle nuove tecnologie e del loro influsso positivo e i soliti professorini votati a indicare la stupidità del popolo nel medesimo luogo così fortemente indiziato di esserne il vero colpevole. Alcuni hanno notato l’effetto comico di questo gigantesco baraccone, durato, come sempre su Internet, il tempo di una tempesta in una tazza di tè.

La faccenda merita uno sguardo meno frettoloso. C’è infatti un altro punto di vista da cui si può guardare alle questioni sollevate da Eco. Fra gli innumerevoli commenti che mi sono passati sotto gli occhi, di titolati giornalisti o di opinionisti del venerdì, di colleghi e allievi del maestro e di appassionati di tecnologia, nessuno, dico nessuno, si è preoccupato di tenere in considerazione il fatto che Umberto Eco abbia speso gran parte della sua vita lavorando proprio sulla questione di cosa debba o non debba essere considerato come stupido. Nessuno si è premurato, insomma, di andare a ricercare il senso di quanto dichiarato dal maestro nella sua pregressa attività di saggista e scrittore.

Nel suo volume dedicato alla Stupidità (Bompiani 2012), Gianfranco Marrone dedica un capitolo proprio alla teoria della stupidità che si può ricostruire dalla sterminata produzione saggistica e letteraria di Umberto Eco. A tale proposito, per esempio, Marrone nota come nel Pendolo di Foucault venga raccontata una storia di resistenza alla stupidità. E, guarda caso, in prima linea in questa lotta ritroviamo una casa editrice. L’ossessione di Jacopo Belbo, redattore editoriale, è smascherare complotti e difendere così la posizione della ragione contro l’aggressione della stupidità, dalla sua posizione di frontiera. Le redazioni, nell’impalcatura della modernità, vengono chiamate a incarnare un ruolo ideologico di primaria importanza: discernere il vero dal falso. Votato a questo fine, Belbo non fa altro che fare e disfare tipologie. La sua missione è inchiodare la bestia nera del pensiero aberrante, usando come arma l’ordine della logica che egli sbandiera tanto eroicamente quanto donchisciottescamente contro il nemico, opponendogli il rifiuto di pubblicazione. La sua casa editrice, come, del resto, ogni casa editrice degna di questo nome, non può che scegliere di calarsi fino in fondo nel ruolo che è chiamata a interpretare: stare dalla parte del pensiero razionale, pubblicando soltanto opere che non cedano al delirio del complotto.

Ma di cosa è fatto questo delirio? Che cos’è la stupidità che così aspramente vuole combattere Belbo? Stupido è il pensiero antirazionale e antiscientifico, è il simbolico, l’analogico, è il pensiero che vede segni ovunque e che, cedendo alla tentazione (al piacere?) di sovrainterpretare, conduce verso l’errore. Tutta la vita di Eco è stata consacrata a dimostrare che di fronte all’information overload dei nostri anni è necessario continuare la missione di Cartesio e quella di Galileo.

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