Quest’anno, l’investimento dell’Italia nella ricerca raggiungerà lo 0,75% del prodotto interno lordo (PIL), agganciando la media dei paesi dell’Unione europea. Questo però solo grazie ai 6,8 miliardi del PNRR dedicati a questo capitolo di spesa. Il nostro paese è infatti da lunghi anni ben al di sotto di quella soglia. Con la crisi del 2008, quando eravamo poco sopra lo 0,6%, si è iniziato a disinvestire, facendo scendere la quota rispetto al PIL fino allo 0,5%. A partire dal primo governo Conte la tendenza si è invertita. La pandemia di Covid-19 ha poi dato un’ulteriore spinta agli investimenti, mettendo in evidenza la grande importanza della ricerca per affrontare (ma soprattutto prevenire) grandi crisi sanitarie, tra le altre cose. Il trend è poi proseguito con il governo Draghi, fino a superare quota 0,66% del PIL nel 2022. L’attuale governo Meloni al momento non ha ancora dato la sua linea in tema di ricerca, perché i contenuti della legge di bilancio approvata alla fine dello scorso anno derivavano da decisioni e impegni già presi. Come si diceva, il PNRR ha integrato le risorse stanziate, ed è previsto che entro la fine del 2023 avremo raggiunto la media UE, superando lo 0,75%. Ma cosa succederà dopo?

Se lo sono chiesto Ugo Amaldi e Luciano Maiani, fisici di consolidata reputazione, che ai tempi del governo Draghi avevano presentato un “Piano quinquennale 2023-2027 per la ricerca pubblica”. Il dialogo avviato con i rappresentanti del governo si era poi interrotto a causa della caduta del governo stesso – e questo dovrebbe fare riflettere sulle ricadute della grande instabilità politica del nostro paese – così i due scienziati hanno rielaborato il Piano su un quadriennio, mantenendo il 2027 come data obiettivo. La tesi del documento è che serva un investimento di 6,4 miliardi di euro, distribuiti nel periodo considerato, per evitare che a partire dal 2026 si esaurisca la spinta del PNRR. I fondi dovrebbero essere distribuiti in forma crescente, partendo da 400 milioni di euro nel 2024, e aumentando di 800 milioni all’anno fino ad arrivare a 2,8 miliardi nel 2027.

Le previsioni dello studio sono sintetizzate in un grafico.

Il grafico presenta diversi dati e scenari, ma per non perdersi è sufficiente concentrarsi sulla linea verde e su quella blu. La prima rappresenta ciò che si prevede succederà se ai fondi del PNRR si aggiungono i 6,4 miliardi previsti dal Piano. Come si può vedere, la spinta servirà a capitalizzare gli investimenti e stabilizzare poi la linea oltre lo 0,75%. La linea blu rappresenta invece ciò che succederà nel caso in cui non si provveda all’integrazione, appoggiandosi quindi solo al PNRR senza aumentare i fondi pubblici. In quel caso, ben presto la linea cambierebbe direzione, facendoci tornare rapidamente ai livelli della crisi. Interessante notare anche la linea rossa, ossia quella che delinea gli effetti di un investimento di 6,4 miliardi in assenza del PNRR. La curva avrebbe un andamento più graduale, ma permetterebbe comunque di arrivare all’obiettivo alla fine del quadriennio.

Nel documento sono spiegati nel dettaglio i capitoli di spesa che andrebbero finanziati con i fondi aggiuntivi, dalle borse di ricerca a nuove assunzioni di personale, oltre a infrastrutture e attrezzature. Un capitolo che ci preme citare è quello della burocrazia, che purtroppo rende l’Italia un paese poco attraente per i ricercatori stranieri, così come quelli italiani che si trovano all’estero e vorrebbero rientrare. «Occorre ridurre il carico burocratico delle attività amministrative che oggi gravano su chi fa ricerca pubblica, sia di base sia applicata – si legge nel Piano –. Un aspetto rilevante in questo senso è rappresentato dal personale tecnico-amministrativo, sottodimensionato […] e sotto qualificato rispetto al numero crescente di adempimenti che il ricercatore è tenuto a svolgere, in molti casi senza neanche avere le necessarie conoscenze specifiche. […] La ricerca sarebbe altresì valorizzata da azioni a costo zero volte a disegnare modelli organizzativi più efficienti seguendo modelli internazionali (ad esempio la semplificazione delle procedure burocratiche e del circuito dei controlli/autorizzazione tra strutture di ricerca e MUR), rafforzando gli incentivi retributivi legati al merito o alla produttività (per esempio con maggiore flessibilità nel bilanciamento degli oneri didattici con quelli di ricerca)».

(Foto di Luca Bravo su Unsplash)

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