carcere
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Nei giorni scorsi sono state portate in Consiglio dei Ministri alcune modifiche al codice penale in tema di corruzione. Il capo del governo Matteo Renzi ha spiegato così i provvedimenti introdotti: «Si alza la pena minima della corruzione, da quattro a sei anni, per cui se hai rubato puoi patteggiare ma un po’ di carcere lo fai». Su questa dichiarazione, e sulla funzione del carcere che essa presuppone, si interroga la giunta dell’Unione delle camere penali italiane. Da tempo si parla (anche su questo blog) del problema del sovraffollamento delle carceri. Possibile che giunti a questo punto della discussione si possano fare dichiarazioni di tale leggerezza su un tema così delicato?

Oramai il “populismo penale”, da pratica degenerativa promossa dai media ed utilizzata dalla magistratura, è divenuta un “abito mentale”, uno di quei luoghi comuni alla cui invadenza nessuno più sembra capace di sottrarsi, né gli utilizzati, né gli utilizzatori. Quando pochi giorni fa, si è diffusa la notizia della approvazione del testo di legge sulla custodia cautelare molte fonti hanno parlato di legge sul “carcere preventivo”. Come avrebbe detto Freud, si deve essere trattato di un lapsus, di un “atto mancato”, di uno di quegli incidenti verbali che scavalcando il controllo dell’io lasciano tracimare il punto di vista dell’inconscio (dell’inconscio inquisitorio, in questo caso), ma certo quella riforma di cui parlavano le Agenzie di stampa, del “carcere preventivo”, fa subito pensare che le parole usate rappresentino direttamente quel che generalmente si pensa della “custodia cautelare”: una pena giustamente e preventivamente inflitta! E a quella stessa pena inflitta “senza processo” deve pensare il primo ministro Renzi quando pensa ad innalzare il minimo del reato di corruzione perché così il colpevole almeno “un po’ di carcere” se lo fa.

Questa strana mistura di furbizia comunicativa, di ignoranza tecnica e di sostanziale mancanza di valori, finisce con il minare le basi della corretta visione del processo e della pena. Ne nasce un’idea bizzarra del carcere come “medicina” o peggio come semplice “farmaco da banco”: non serve la ricetta del medico, prendine “un po’” che ti fa comunque bene. Ma questo uso distorto del limite edittale delle pene, del tutto disancorato dalla oggettiva gravità del reato e collegato, come fosse un titolo di borsa, al gradimento del pubblico, o peggio ancora, come nel caso di Renzi e della corruzione, esclusivamente funzionale alla produzione ad ogni costo di “un po’ di pena”, appare evidentemente contrario ai fondamentali principi che governano il diritto. E se il giudice ritenesse, invece, che in quel singolo caso si potesse patteggiare, e non si dovesse affatto ricorrere alla esecuzione di una pena?

Perché quel “po’ di carcere”? Per accontentare le richieste della magistratura associata e acquietare l’opinione pubblica, togliendo con ciò stesso autonomia alla giurisdizione? Per incrementare il perverso sistema delle “porte girevoli”, che si cerca in ogni modo di eliminare? Per scongiurare il rischio della prescrizione, che si riduce proprio ricorrendo con maggiore ampiezza al patteggiamento? Perché in questo paese – come si dice – nessuno va più in galera, sebbene l’Europa ci abbia condannato per il sovraffollamento delle nostre carceri? Che qualcuno risponda.