
Corruzione, mazzette, Mose, Expo. Parole che si rincorrono da giorni sui giornali e sulla bocca di politici e opinionisti di ogni colore. Il tono è quasi sempre moraleggiante, talvolta sprezzante, altre addolorato. Purtroppo non si ripresentano con la stessa insistenza altri termini che dovrebbero conseguire alle situazioni che stanno emergendo dalle acque torbide delle grandi e costose opere pubbliche nazionali: reati accertati, sentenze, condanne. In questi casi, quando i soldi che girano sono tanti e i reati contestati hanno a che fare con la corruzione o la frode fiscale, in Italia si fa molta fatica ad arrivare in fondo ai processi senza che questi siano sgonfiati rispetto al clamore iniziale. «Dice il rapporto 2013 dell’Institut de criminologie et de droit pénal curato dall’Università di Losanna – scrive Gian Antonio Stella sul Corriere del 5 giugno –, che nelle nostre carceri solo 156 detenuti, lo 0,4 per cento del totale, sono lì per reati economici e fiscali, tra cui la corruzione e la concussione. Una percentuale ridicola. Dieci volte più bassa rispetto alla media europea del 4,1 per cento». I motivi sono diversi, non ultimi i tempi di prescrizione, particolarmente brevi rispetto ad altri Paesi, uniti alla durata dei processi enormemente dilatata che caratterizza il nostro ordinamento giuridico.
Altra questione di rilievo in questo senso è l’eccessivo numero di norme che regolano la materia degli appalti, che rendono la giurisprudenza voluminosa e incerta. Di questo tema si è occupato Davide De Luca sul Post qualche giorno fa: «Ma da dove arriva tutta questa complessità? Prima di tutto dal Codice dei contratti pubblici, a volte chiamato anche Codice degli appalti, che è composto da 273 articoli, 38 allegati e che è diviso in 1.500 commi. A questo si aggiunge il Regolamento di Attuazione del codice degli appalti, che aggiunge altri 350 articoli. In tutto, gli articoli da rispettare sono i 600 di cui ha parlato Cantone. Da quando è entrata in vigore nel 2006, il codice è stato modificato 564 volte e i suoi articoli sono stati oggetto di sentenze e pareri amministrativi per seimila volte. […] Spesso questi articoli rimandano a loro volta ad altre norme e leggi, che possono essere piuttosto complesse. […] I moduli vanno compilati senza sbagliare nemmeno una virgola. Basta un errore relativamente piccolo e in caso di contenzioso il giudice può stabilire che l’ente non è tenuto a pagare un lavoro svolto».
Anche solo basandosi su questo breve resoconto, è abbastanza ovvio che per sbloccare la situazione non occorrono nuove leggi per l’inasprimento delle pene, spesso invocate da ministri e capi del governo per occupare i titoli dei giornali nei giorni delle inchieste. Servono una razionalizzazione dei codici attuali e uno snellimento delle procedure, che oggi sono in mano a super-specialisti in grado di muoversi tra le insidie di articoli e commi, e che rendono difficilmente perseguibili comportamenti scorretti. E si arriva alla cronaca, e ai casi su cui sta indagando la magistratura. È così che si dilatano i tempi: «Basti ricordare – prosegue Stella – l’impegno preso dall’allora vicepresidente del consiglio Gianni De Michelis il 4 novembre 1988, quando dopo anni di tormentoni fu presentato il prototipo del Mose: “La scadenza? Resta quella del 1995. Certo, potrebbe esserci un piccolo slittamento…”. Sono passati quasi vent’anni». Il tempo è denaro, si sa, e infatti «doveva costare un miliardo e trecento milioni di euro attuali, il Mose. E di anno in anno, di perizia in perizia, di furbizia in furbizia, ha sfondato i cinque miliardi e non è detto che ne basteranno sei». Al di là dei facili claim e hastag aspettiamo una svolta vera, una riforma che si prenda la responsabilità di mettere mano a questo macigno che appesantisce la ripresa e rappresenta uno dei tanti costi insostenibili per lo Stato.