di Federico Caruso

«Il 30 aprile non festeggeremo il jazz per le eccellenze e i virtuosismi raggiunti dai suoi creatori ed esecutori. Non ci soffermeremo sulle modalità in cui personaggi come Charlie Parker e Thelonious Monk hanno saputo ispirare la narrativa di Julio Cortazar, né analizzeremo le influenze dei ritmi del jazz sulla prosa di Louis Ferdinand Céline o di Francis Scott Fitzgerald. Niente di tutto questo. Noi celebreremo la musica Jazz per la sua capacità del tutto unica -anche nel mondo della musica- di mettere in contatto e far dialogare tra loro culture diverse e per il carattere assolutamente rivoluzionario di questo dialogo, in grado di infrangere qualsiasi barriera di razza, religione, classe sociale».

Sono le parole di Giovanni Puglisi, presidente della Commissione nazionale italiana per l’Unesco, a commento dell’istituzione della prima Giornata internazionale della musica jazz, fissata appunto per il 30 aprile. Queste perché, secondo l’emanazione dell’Onu, il jazz è «Uno strumento di sviluppo e crescita del dialogo interculturale volto alla tolleranza e alla comprensione reciproca». E in effetti, sebbene non sia stato un percorso facile e privo di ostacoli, il jazz è stato tra gli strumenti utilizzati dal popolo afroamericano per conquistare i diritti più elementari negli Stati Uniti della prima metà del Novecento.

Un razzismo latente di fondo si celava già nel pensiero che gli afroamericani degli esordi del jazz suonassero completamente a orecchio, senza la minima consapevolezza delle note, dell’armonia. Peraltro uno dei geni assoluti, forse il genio assoluto, colui che ha permesso lo sviluppo del jazz così come lo conosciamo, Louis Armstrong, non ha mai fatto nulla per smentire questa falsa convinzione. Non l’ha mai detto esplicitamente, ma il suo pensiero potrebbe “suonare” così: «Cari bianchi, siccome sono nero e sono del Sud, avete bisogno di pensare che io sia troppo pigro e ignorante per poter studiare la teoria musicale, l’armonia, la composizione? Bene, allora lascerò intatta questa idea. Continuate pure a pensare che i miei assoli di tromba siano totalmente “improvvisati”, l’importante è che mi facciate suonare».

Tale idea è rimasta effettivamente radicata nel pensiero di molti, quasi tutti, fino a oggi. E invece si è scoperto che Armstrong, negli anni ’20 del secolo scorso, aveva depositato gli spartiti dei suoi assoli, talvolta anni prima di suonarli in pubblico e di inciderli su disco. E insomma, qualcuno ha dovuto ricredersi (molti devono ancora farlo) dalla convinzione che questi strani poco-più-che-selvaggi fossero dotati di un misterioso potere che permettesse loro, come per magia, di suonare esattamente le note nell’armonia, di andare a tempo, di inventare melodie anche molto complesse.

Poi il jazz è andato avanti, velocissimo, come il mondo che gli girava attorno. Si è spostato da New Orleans a New York, dove sono arrivati i bopper, quelli che negli anni ’40 suonavano (davanti a un pubblico di bianchi) una musica nuova, indiavolata, incomprensibile per i “non addetti ai lavori”. Un nome su tutti: Charlie Parker. Il jazz non era mai stata prerogativa degli afroamericani (altro mito da sfatare), ma questa nuova musica sì. Era la musica di una comunità, tanto che alcuni suoi esponenti, per provocazione, si esprimevano in improvvisazioni complesse e rapidissime dando le spalle al pubblico, indossando occhiali da sole, abbigliandosi in maniera riconoscibile, da bopper, appunto.

Poi, ancora, la riscoperta delle radici africane negli anni ’60, ma non è questa la sede per ulteriori approfondimenti. Basti sapere che nel frattempo il jazz si era diffuso in tutto il mondo, non poteva già più inquadrarsi come fenomeno “neroamericano”. Ormai era di tutti, vi attingevano a piene mani anche i grandi compositori del mondo classico. Era cresciuto al punto da rientrare nella definizione che oggi ne dà l’Unesco. E che ne dava anche un altro genio assoluto, John Coltrane: «Il jazz, se si vuole chiamarlo così, è un’espressione musicale; e questa musica è per me espressione degli ideali più alti. C’è dunque bisogno di fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra».