Dato l’alto numero di mutazioni della variante omicron del coronavirus, in molti si sono preoccupati che l’efficacia degli anticorpi creati grazie ai vaccini potesse essere compromessa.
E in effetti, secondo diversi ricercatori, una minore efficacia nella risposta degli anticorpi potrebbe tradursi in una maggiore possibilità d’infezione. Visto però che ci stiamo spostando verso una situazione in cui la priorità è proteggere le persone dallo sviluppo di sintomi gravi, più che dal contagio, forse l’attenzione va spostata dagli anticorpi ai linfociti T (o cellule T).
È ciò che suggerisce l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) in un suo comunicato dell’11 gennaio, dove si dice che l’efficacia dei vaccini contro omicron, secondo i dati preliminari, è ridotta per quanto riguarda la protezione dallo sviluppo di sintomi, ma è probabile che sia preservata rispetto a forme gravi della malattia.
La stessa tesi è proposta in un articolo uscito su Nature lo stesso giorno. Diversi laboratori in tutto il mondo stanno convergendo su uno stesso messaggio: le diverse varianti, nonostante le continue mutazioni, restano altamente suscettibili alle risposte delle cellule T, omicron inclusa.
Quando si tratta di immunità da coronavirus, gli anticorpi tendono a catturare l’attenzione dei ricercatori. Un calo dei livelli di anticorpi neutralizzanti – che impediscono al virus di replicarsi – è infatti correlato a un aumento del rischio di infezione sintomatica. Gli anticorpi sono inoltre più facili da studiare rispetto alle cellule T, rendendo più facile farli oggetto di grandi studi internazionali sui vaccini. Forse anche per questo la comunicazione sui media ha dato maggiore risalto a questo aspetto, certamente più facile da comunicare.
Ma l’aumento delle varianti del coronavirus ha dimostrato quanto possa essere fragile l’immunità basata sugli anticorpi di fronte a un virus in continua mutazione. Gli anticorpi neutralizzanti hanno pochi “appigli” con cui legarsi alla proteina spike del SARS-CoV-2, usata come modello per molti vaccini contro il COVID-19. Se cambiano questi “punti d’appoggio”, la protezione anticorpale svanisce.
Le cellule T, tuttavia, sono più resistenti. Queste svolgono una varietà di funzioni immunitarie, tra cui eliminare le cellule infettate dal virus. In questo mondo le cellule T possono limitare la diffusione dell’infezione, e potenzialmente ridurre la possibilità di sviluppare malattie gravi.
I livelli delle cellule T non diminuiscono rapidamente come gli anticorpi dopo un’infezione o una vaccinazione, spiega Nature. E siccome le cellule T possono riconoscere molti più siti lungo la proteina spike rispetto agli anticorpi, sono più in grado di riconoscere le varianti mutate.
Le analisi al computer e in laboratorio fatte finora suggeriscono che questo sia il caso di omicron. Alcuni studi hanno analizzato le cellule T prese da persone vaccinate contro il COVID-19 o che sono state infettate da una variante precedente, e hanno scoperto che esse sono in grado di rispondere a omicron. Il prossimo passo è capire se questo vale anche nel mondo reale.
Le risposte dei linfociti T sono stati correlate a una maggiore protezione contro il COVID-19 grave in modelli animali e in studi clinici su esseri umani. Nessuno dei vaccini che si sono dimostrati efficaci ha mostrato di sviluppare un alto numero di anticorpi neutralizzanti, ha osservato Dan Barouch, direttore di un centro di virologia e ricerca sui vaccini statunitenste. Il sospetto quindi è che tale efficacia risieda proprio nella risposta dei linfociti T.
La grande attenzione verso gli anticorpi è talvolta frustrante per i ricercatori, e può portare a decisioni che hanno un forte impatto sulla vita delle persone. Il mese scorso, racconta Nature, Pfizer e BioNTech hanno annunciato che il loro vaccino non è riuscito a stimolare una risposta anticorpale sufficiente nei bambini tra i due e i cinque anni. Di conseguenza, il vaccino non è stato autorizzato negli Stati Uniti per i bambini sotto i cinque anni. «Non hanno nemmeno guardato alla risposta delle cellule T», ha commentato Harlan Robins, responsabile di un’azienda statunitense che sviluppa sistemi per studiare i linfociti T.
Allo stesso modo, gli studi su larga scala per lo sviluppo degli attuali vaccini negli adulti non hanno raccolto abbastanza campioni necessari per analizzare se le risposte delle cellule T possono essere correlate all’efficacia del vaccino. In questo senso, sviluppare sistemi per studiare i linfociti T è sicuramente parte della soluzione del problema.
(Foto di Prasesh Shiwakoti (Lomash) su Unsplash )
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