Il giornalista Andrew Blum ha deciso di andare “in cerca di Internet come entità fisica”. Ne è uscito un libro affascinante, che viene recensito sul Tascabile da Marco Rossari.

Nella sua autobiografia, Henry Adams raccontava la visita alla Grande Esposizione a Parigi del 1900, dove vide una nuova tecnologia che aveva del prodigioso: la dinamo. “Non era altro che un’ingegnosa conduttura per trasportare in qualche luogo il calore latente in qualche tonnellata di carbone di mediocre qualità”. Eppure per lui diventò il simbolo dell’infinito. “Lo stesso pianeta terrestre pareva meno impressionante, nella sua antiquata metodica rivoluzione annuale o giornaliera, di questa immensa ruota che girava a brevissima distanza a una velocità vertiginosa e mormorava appena – ammonendo con un brusio appena percettibile a tenersi un pelo più discosti per rispetto della potenza”. È un’immagine suggestiva: una scheggia di sublime in un oggetto triviale. Ed è così che racconta di essersi sentito il giornalista Andrew Blum davanti a Internet. Non alla rete per come la intendiamo noi: meme, social, news, cloud, pc, portatile, sclero quotidiano, (calo di) attenzione, religione, lavoro. No, proprio davanti alla quintessenza di Internet, alla materialità della struttura portante, davanti alla rappresentazione materiale – fisica – di una rivoluzione che di nuovo ha segnato un crinale tra antico e moderno. Blum ha visto il cuore della rete, e c’è arrivato per strade lunghe e tortuose. Dov’è cominciato quel viaggio? Da uno scoiattolo.

Una mattina d’inverno Blum – che collabora con Wired, Vanity Fair e il New York Times – si ritrova con la rete che non funziona. Impreca. Chiama un tecnico. Si mettono al lavoro. Seguono il cavo che scende in seminterrato, arrivano in giardino, trovano un filo smangiucchiato da un roditore che se la batte lungo la grondaia. E all’improvviso gli viene l’illuminazione. Tutta qua, la Morbida Macchina. “I dentoni di uno scoiattolo di Brooklyn ne avevano intralciato la grandezza”. Da lì gli viene la tigna di cominciare a indagare fisicamente una faccenda che sembra essere diventata soprattutto immateriale, tramite wifi, connessioni fantasmatiche, smartphone. Idem nelle nostre teste, che proiettano e incamerano il virtuale con uno scarto percettivo che ne fa la vera realtà del pensiero: struggimenti, lavori, ambizioni, nostalgie, chat, mail, amori, amicizie, sesso, insomma la vita in generale. Il doppio è talvolta più bello, ampio, luminoso, altre volte oscuro, minaccioso, inquietante; eppure è lì che si muove perennemente accanto a noi e dentro di noi, ci chiama e ci attira e ci respinge in pari misura, come se il famoso microchip ci fosse stato innestato davvero nel cervello, ma da noi stessi, giorno dopo giorno, minuto per minuto, in un abbraccio con la nuvola o con la nostra ombra.

Eppure quella proiezione transita per una serie di tubi e di scatole. E Blum ha deciso che voleva capire dove e come: “andare in cerca di Internet come entità fisica significava andare in cerca degli spazi vuoti tra ciò che è fluido e ciò che è fisso”. Il viaggio, per quanto leggermente datato (il libro – Tubi – è del 2012, proposto ora da minimum fax, traduzione di Chiara Veltri, pp. 299, € 20), è una lettura affascinante. Blum procede metodicamente, capitolo dopo capitolo, ad affrontare ogni manifestazione tangibile del mostro che scorre nelle nostre teste. Comincia dalle mappature, per guardare dall’alto il labirinto e per coglierne il funzionamento. E non è facile nemmeno questo.

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(Foto di Lars Kienle su Unsplash )

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