Sulla violenza contro le donne questo governo sta dimostrando -come in quasi tutto vista la varietà di cui è composta la base che lo sostiene- un impegno piuttosto tiepido. Ecco perché, dopo l’approvazione del decreto sul femminicidio e in attesa che esso sia seguito da una legge del Parlamento, ci preme spostare l’attenzione sulle lacune del testo licenziato dal governo, così come espresse da rappresentanti di associazioni che si occupano del problema non solo dal punto di vista legale, ma anche da quello psicologico e sociale. Proprio su questa distinzione si concentra una delle più aspre critiche mosse contro il documento, ossia il suo essere incentrato sugli aspetti penali. Sono state inasprite le pene per i reati commessi da coniugi o ex coniugi delle vittime, ma questo non è che un primo passo, forse non quello fondamentale, nella strada per la soluzione del problema. Non è il deterrente della pena che può fermare la mano che sta per compiere la violenza.

Altro punto debole della norma, a un livello più profondo, è il suo considerare la donna in quanto “soggetto debole”. Questo va in contrasto con un altro principio, quello di “soggetti vulnerabili”, che richiede tutto un altro atteggiamento da parte dello Stato. Lo spiega in maniera molto chiara Barbara Spinelli in una relazione che ha letto alla Camera, a beneficio delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia incaricate di redigere il testo della legge: «Lo Stato -scrive Spinelli-, mediante la ratifica della Convenzione di Istanbul, si è specificamente obbligato ad utilizzare una prospettiva di genere nell’applicazione della Convenzione, che impone alle Istituzioni non di adottare misure di pubblica sicurezza “in una chiave di difesa dei soggetti più deboli ed esposti” , ma invece di adottare le misure necessarie a promuovere e garantire il diritto delle donne a vivere una vita libera dalla violenza, anche tutelando i diritti delle vittime (cosa diversa dal tutelare le vittime!) senza distinzioni di sesso».

L’impianto stesso del decreto è messo in discussione proprio perché, pur avendo ottenuto l’indubbio risultato di convincere i media che questo governo, per primo, ha intrapreso un iter di ripensamento globale delle politiche sulla violenza contro le donne, in realtà prosegue nel solco della gestione emergenziale che ha dettato fin qui l’agenda della politica. «Il Cedaw (Comitato Onu per l’eliminazione della discriminazione contro le donne, ndr) -prosegue la relazione- chiedeva di dare priorità all’adozione di misure strutturali, capaci di tenere conto anche della specifica posizione delle donne in situazioni più vulnerabili, con cui “assicurare che le donne vittime di violenza abbiano immediata protezione, compreso l’allontanamento dell’aggressore dall’abitazione, la garanzia che possano stare in rifugi sicuri e ben finanziati su tutto il territorio nazionale; che possano avere accesso al gratuito patrocinio, alla assistenza psico-sociale e ad un’adeguata riparazione, incluso il risarcimento”. Raccomandava inoltre di strutturare un sistema efficace di raccolta dati, di assicurare la formazione di tutti gli operatori, di coinvolgere la società civile in campagne di sensibilizzazione, nonché di ratificare la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza nei confronti delle donne e in ambito domestico».

Il Cedaw chiedeva una relazione, entro luglio, sull’adozione di un programma quadriennale per le azioni appena elencate. La relazione non è stata preparata e questo decreto, secondo la Spinelli, arriva per uscire in qualche modo da una situazione di inadempienza (e la relazione, pare, arriverà entro la fine di settembre). Un intervento legislativo di facciata, pensato ad arte per farsi belli agli occhi dell’Onu e dell’opinione pubblica. Purtroppo, un’azione che ignora le criticità di una situazione che ha bisogno di misure strutturate, di prevenzione come di ascolto e intervento. «I fatti di cronaca, che ci riportano di donne uccise dopo aver chiesto aiuto, e denunciato, evidenziano l’inettitudine di un esecutivo incapace di prendere in mano la situazione, raccogliere dati, cercare di capire, confrontandosi con gli operatori, gli ostacoli materiali alla protezione delle donne: davanti a queste gravi omissioni di attività dovute da parte dell’esecutivo, fa comodo utilizzare la giustizia penale e la decretazione d’urgenza come “palliativo”, capace di “sedare l’opinione pubblica” a fronte dell’incapacità di garantire adeguata protezione alle vittime donne e minori che scelgono di denunciare situazioni di violenza». Ci auguriamo, con qualche scetticismo, che la legge di conversione sarà redatta accogliendo le osservazioni qui ricordate.