Francesca, una donna che vive a Milano, ha scritto una lettera in merito al problema della violenza sulle donne. «Mi rivolgo al sindaco -scrive-, ma vorrei rivolgermi anche al governo (a quei pochi rimasti che non pensano solo a rubare) e a chi decide le pene, affinché questi violentatori di donne abbiano finalmente una punizione pesante. Vivo a Milano e lavoro in centro, ogni mattina prendo la metropolitana e quando parlo con le mie amiche e colleghe, tutte mi dicono che nelle loro borse pesanti ci sono: coltellino, spray al peperoncino, lacca per capelli, forbici, piccolo allarme da suonare in caso di aggressione. Ma è giusto che una donna si debba sentire così e girare con la paura?».
Domanda legittima, cui ne segue un’altra, poco più avanti: «Mi potrebbe dare un nome e un cognome di chi ha il potere di fare una legge nuova e programmare una pena?». Apparentemente facile rispondere, dato che l’entità cui è delegato questo compito risponde al nome (e cognome) di Parlamento Italiano. La violenza sessuale in Italia è punita (dal 1996) dall’articolo 609-bis del codice penale con la reclusione da 5 a 10 anni, che possono salire a 12 in caso di aggravanti. Uno dei problemi è però rappresentato dallo scarso numero di denunce rispetto al totale dei reati commessi. Secondo l’Istat il 93 per cento delle donne che affermano di avere subito violenza ad opera del coniuge dichiara di non aver sporto denuncia; la percentuale sale al 96 se l’autore della violenza non è il partner.
E si sa che, più della severità, è la certezza della pena il vero deterrente contro la delinquenza, di qualsiasi tipo. Ma nel caso della violenza sulle donne la questione è anche culturale, e in questo senso è interessante l’intervista a Marisa Guarneri, presidente onoraria della Casa delle Donne Maltrattate di Milano, pubblicata sul blog di Marina Terragni. Guarneri individua alcuni obiettivi precisi da perseguire, col supporto determinante della politica: «Primo: andare a fondo, dialogando intimamente con uomini che si rendano disponibili a farlo, per comprendere da dove viene la violenza maschile, come si forma, come devono cambiare le relazioni tra i sessi. Noi stiamo facendo questo percorso con l’associazione Maschileplurale: ne parleremo tra qualche mese in un convegno a Milano.
Secondo: finanziare in modo adeguato e continuativo i centri antiviolenza, anziché promuovere convegni e ricerche a ripetizione che servono più all’autopromozione di questo o quel politico o di questa o quella associazione che a dare davvero una mano alle donne. Il mio sogno, per esempio, sarebbero centri in ogni quartiere, o anche camper, gestiti da donne e non dalle istituzioni, a cui ci si possa rivolgere con discrezione per parlare di sé, per ottenere ascolto e un primo orientamento». In sostanza, più che invitare la politica ad agitarsi per proporre questa o quella norma, si invita a trasferire la questione a chi ha le competenze per farlo: «Serve un lavoro concreto, quotidiano, umile, tenace e consapevole. E lontano dai riflettori. E servono fondi certi per finanziare questo lavoro». Il messaggio è molto chiaro. E, aggiungiamo, con un governo “tecnico” che ha dichiarato espressamente la sua volontà di non occuparsi di alcuni temi squisitamente “politici”, sono proprio i gruppi parlamentari a dover riempire questo vuoto fino alle prossime elezioni. Più comodo, forse, temporeggiare e trasformare in promesse elettorali quelle che oggi potrebbero essere iniziative concrete.