Il governo italiano ha approvato la voluntary disclosure (collaborazione volontaria) per la prima volta a dicembre del 2014. Si è dimostrato uno strumento di una certa efficacia per l’emersione di patrimoni illecitamente custoditi all’estero. Ora però è sempre più accreditata la voce secondo cui sarebbe in arrivo una seconda edizione del provvedimento, che potrebbe portare, paradossalmente, a un aumento dell’evasione fiscale. Alla base di questo tipo di dispositivi c’è un doppio meccanismo che, se funziona, produce un grande gettito a breve termine per lo Stato, e una discreta probabilità di un aumento di quello a medio-lungo termine. Il primo ingranaggio di questo meccanismo è costituito dall’offerta, da parte dello Stato agli evasori, di pagare una quota ridotta delle tasse dovute per gli anni precedenti, nonché la cancellazione (o la non punibilità) del reato. Con un contributo relativamente piccolo (ma che sui grandi numeri si traduce in miliardi di euro incassati dall’erario), l’evasore si trova dunque all’improvviso nella legalità, come qualunque altro cittadino. Perché questo avvenga, però, deve funzionare anche il secondo ingranaggio, ossia la prospettiva futura di maggiori controlli e nessuna possibilità di indulgenza. In questo ci vuole una certa determinazione da parte dello Stato, perché se la percezione diffusa resta quella di una costante possibilità di “patteggiare” la pena e godere di una forte riduzione dell’importo dovuto, allora saranno sempre meno quelli che decideranno di dichiarare i propri patrimoni, e sempre di più quelli che attenderanno “tempi peggiori”, che potrebbero non arrivare mai. Ecco perché l’annuncio di una possibile voluntary disclosure 2 già quest’estate andrebbe a indebolire uno strumento che, nella sua prima applicazione, ha avuto qualche effetto in termini di entrate per lo Stato.

Dopo i numerosi condoni fiscali avvenuti nel decennio scorso, la voluntary disclosure doveva essere l’ultima spiaggia per gli evasori che, finita la “finestra” disponibile per collaborare, avrebbero dovuto fare i conti con i controlli. Questo anche grazie agli accordi stipulati negli anni scorsi con i governi di Paesi i cui sistemi bancari sono garantiti dall’anonimato. Su tutti la Svizzera, con la quale da febbraio 2015 c’è un’intesa per lo scambio delle informazioni. Proprio questo tipo di patti bilaterali rischiano paradossalmente di indebolire la capacità dello Stato di indurre gli evasori a collaborare. «Se le attività erano detenute in paradisi fiscali con i quali l’Italia ha sottoscritto un accordo per lo scambio delle informazioni, il trattamento fiscale e sanzionatorio ai fini della voluntary era allineato con quello di favore previsto per i paesi non black-list», spiegano Giampaolo Arachi e Francesco Dal Santo su Lavoce.info.

La collaborazione volontaria non ha dato luogo a sostanziali incrementi di tassazione dei capitali dichiarati, rispetto al criticato “scudo fiscale” del 2009: «L’Agenzia delle Entrate ha stimato che la regolarizzazione produrrà un gettito di circa 3,8 miliardi, al netto degli interessi. In media, quindi, la regolarizzazione è avvenuta pagando un ammontare pari al 6,4 per cento delle attività detenute all’estero. Si tratta di una percentuale non lontana dal 5 per cento dell’imposta straordinaria prelevata con lo scudo fiscale in sostituzione del pagamento delle imposte eventualmente evase». La lotta all’evasione è un capitolo cruciale per recuperare risorse ingiustamente tolte ai conti pubblici. Strumenti di condono fiscale risultano spesso inevitabili perché i costi di reali controlli sistematici e a tappeto sarebbero insostenibili. Meglio dunque riscuotere qualcosa subito per mettere a posto il bilancio dello Stato, anche in vista dei vincoli europei.

Più però si reiterano meccanismi di questo tipo, più passa un messaggio di impunità verso l’evasione fiscale, che a lungo termine non porterà miglioramenti nei rapporti tra cittadini e istituzioni. La prova di questo sta nei numeri: «Secondo i dati comunicati dall’Agenzia delle Entrate, le istanze presentate (circa 130mila) hanno portato all’emersione di attività detenute irregolarmente all’estero per circa 60 miliardi di euro. Se da un lato questi dati consentono di considerare l’operazione un successo, dall’altro segnalano ancora una volta un preoccupante livello di infedeltà fiscale, soprattutto se si tiene conto del fatto che l’ultimo condono del 2009 (noto come “scudo fiscale”) aveva già portato alla regolarizzazione di circa 95 miliardi di euro. E segnalano anche che ancora oggi come nel 2009, quasi il 70 per cento delle attività irregolari sono localizzate in Svizzera».

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