Questioni di fiducia e continui cambi di “casacca” sono due aspetti ormai consolidati nella vita del Parlamento italiano, che si verificano con frequenza crescente ormai da qualche decennio. A prescindere dal colore politico del governo in carica, negli anni il Parlamento è stato sempre più impegnato a ratificare le proposte del governo, e sempre meno a discutere e approvare proposte di legge frutto dell’iniziativa parlamentare. Attualmente, come illustra OpenPolis, il governo guidato da Paolo Gentiloni ha chiesto la fiducia complessivamente 30 volte (12 alla Camera, 18 al Senato) che, sommate alle 66 del governo Renzi e alle 10 del governo Letta, fanno 106, con cui è stato approvato il 30 per cento delle leggi (ma si sale al 51,72 per cento considerando il solo governo Gentiloni).

La legislatura non si è ancora conclusa, ma è già stato superato quanto fatto nella precedente, quando Berlusconi e Monti chiesero la fiducia complessivamente 97 volte. Si tratta di una pratica che ha un forte impatto sulle attività parlamentari, dato che tipicamente la fiducia viene chiesta soprattutto quando si discute (o meglio, proprio per evitare discussioni troppo lunghe) di questioni considerate “chiave” per la realizzazione del programma di governo.

Per quanto riguarda i cambi di gruppo, si segnalano ormai da tempo numeri a tre cifre in questa legislatura. Dopo gli ultimi cambi registrati il 28 novembre, in cui «Trifone Altieri passa alla Lega nord, mentre Enrico Buemi entra nel gruppo Misto di Palazzo Madama iscrivendosi alla componente dei Verdi», siamo a 300 passaggi di gruppo alla Camera e 235 al Senato, per un totale di 204 deputati e 139 senatori coinvolti. In percentuali, ciò significa che il 32,38 per cento dei rappresentanti della Camera ha cambiato collocazione almeno una volta, mentre tra i senatori la percentuale è del 43,44 per cento. Capiamo l’importanza di rispettare l’assenza del vincolo di mandato per i nostri rappresentanti, ma diventa difficile giustificare un così alto numero di spostamenti, che arrivano a disegnare un Parlamento completamente diverso rispetto a quello risultante dal voto del 2013 (che peraltro secondo alcuni soffre di una “distorsione” data dal premio di maggioranza della legge elettorale allora in vigore, poi abolito dalla Corte costituzionale).

Entrambe le questioni sollevate sono denunciate da molto tempo, e a turno chi sta all’opposizione accusa chi sta al governo di ciò che il suo gruppo non ha fatto quando avrebbe potuto. Per quanto riguarda il problema dei cambi di gruppo, un timido tentativo di cambiare le cose si sta facendo al Senato. Lunedì è stata infatti proposta la calendarizzazione della discussione sul nuovo regolamento. Il nuovo testo dovrebbe agire in due direzioni: da una parte vietando di formare nuovi gruppi rispetto a quelli che si sono presentati alle elezioni; dall’altra imponendo che sia possibile lasciare il proprio gruppo di provenienza solo per aderire al gruppo misto. Come spiega Mariolina Sesto sul Sole 24 Ore, «Una novità che sembra confliggere con lo scenario più probabile del dopo-elezioni e cioè uno stallo senza maggioranza. Situazione in cui la formazione di un nuovo gruppo, sulla falsariga dei ”responsabili”, potrebbe aiutare a superare l’impasse. In realtà, un escamotage è possibile, pur in presenza di norme regolamentari più rigide: rimane infatti percorribile la strada di movimenti verso il gruppo misto con eventuale formazione di sotto-gruppi. Questi ultimi non riceverebbero finanziamenti ad hoc ma rappresenterebbero nuove eventuali formazioni politiche».

Si tratta di una situazione che genera grande confusione tra gli elettori, e che contribuisce a creare un quadro del Parlamento che talvolta risulta molto lontano dalla realtà (e dai problemi che questa comporta). Inoltre, si tratta di una prassi che i partiti nuovi e più piccoli possono sfruttare per crearsi uno spazio dentro le Aule ancora prima di avere mai partecipato a elezioni politiche: «Sigle, movimenti e componenti spesso poco conosciuti – spiega OpenPolis –, che non hanno sempre rilevanza nazionale, che non hanno partecipato alle ultime politiche e che in alcuni casi non parteciperanno neanche alle prossime. Eventi che hanno chiaramente una diretta influenza su quanto viene deciso dall’aula, ma che sembrano essere troppo distanti da dinamiche reali di rappresentatività nel paese».

(Foto di Uroš Jovi?i? su Unsplash)